La fotografia è documentazione e rappresenta la realtà
Riflessioni sulla fotografia come rappresentazione del reale e sui cambiamenti della cultura visiva nel nostro quotidiano
Riflessioni sulla fotografia come rappresentazione del reale e sui cambiamenti della cultura visiva nel nostro quotidiano
In un pomeriggio assolato diversi anni fa, seduto ad un tavolino di un postribolo in una strada polverosa di Makeni in Sierra Leone, ricordo una conversazione avuta con un collega fotografo, davanti ad una birra gelata e nel mezzo di un chiassoso e colorato andirivieni di grandi occhi, sorrisi, piedi scalzi e polverosi, abbigliamenti di varia foggia. “La fotografia è documentazione e deve rappresentare la realtà, quindi se voglio fare una foto di quel bicchiere con una determinata luce che lo colpisca, non lo sposterò da quel punto, ma aspetterò che il sole arrivi esattamente dove mi aspetto che sia…” declamava il collega di cui ho perso le tracce. E se poi il cielo si annuvolava cosa avrebbe fatto per una significativa foto di un bicchiere mezzo vuoto: avrebbe continuato ad ubriacarsi fino al fatidico momento? Ho sempre avuto una certa insofferenza per le dichiarazioni di categorico purismo.
La professione, anche in tempi analogici, mi ha insegnato che l’identità di un fotografo poteva passare in un scatto d’otturatore da quella di paladino delle immagini documentarie a quella di un onesto, ma abile mistificatore consapevole della necessità di compromessi, pur di far chiudere le pagine di un giornale senza incidenti. Più volte mi sono posto la domanda se queste alternative potessero coesistere eticamente o per lo meno secondo una qualche logica. Oggi, immersi nel continuum inarrestabile di immagini liquide che attraversano le nostre vite, con una durata media inferiore al nanosecondo, il presupposto di verità sembra svanire e quella chiacchiera assume il valore di un discorso obsoleto e per niente contemporaneo. Ho pensato allora di scomodare alcuni illustri pensatori e personaggi della fotografia, indagare in diverse puntate se la loro rappresentazione del reale sia oggettiva e veritiera, per capire fino a che punto sia cambiata la cultura visiva nel nostro quotidiano.
La percezione visiva come un processo culturale primario ha assunto un ruolo di egemonia nella costruzione della conoscenza. L’occhio e l’intero sistema sensoriale sono gli strumenti che ci consentono di superare la separazione tra noi e il mondo che ci circonda. Il ponte di luce che ci mette in contatto con la realtà esterna porta al cervello informazioni indispensabili per la nostra vita e per la nostra stessa sopravvivenza. Dei nostri cinque sensi, indubbiamente la vista è quello dal quale ricaviamo il maggior numero di informazioni sulla realtà che ci circonda. Secondo una stima effettuata da Matthew P. Murgio (1969) l’apprendimento nell’essere umano avviene per circa l’83% attraverso la vista, soltanto il 10% dall’udito, il resto dagli altri sensi. La prevalenza della visione risulta schiacciante, tanto che si può affermare con il filosofo del linguaggio Ludwig Wittgenstein che
“Io so” ha un significato primitivo quanto “io vedo” come l’espressione inglese ‘I see’, equivale a ‘Io ho capito’ ed ‘Io vedo’.
In sanscrito, il termine Veda, che significa conoscenza, ha la stessa radice del latino vid-ere, vedere, a prova che tale processo conoscitivo non è esclusivo della cultura occidentale. Si potrebbe affermare che l’intera storia del pensiero umano potrebbe essere riscritta nei termini di un confronto tra l’occhio e la mente: storia che non possiamo qui ripercorrere, quindi partiamo direttamente dall’epoca moderna. E precisamente dal 9 luglio 1839 quando al procedimento fotografico di Louis Jacque Mandè Daguerre (1787- 1851), scenografo e creatore di diorami, viene concesso il brevetto dall’Accademia delle Scienze di Parigi.
La fotografia esordì in piena epoca positivista, quando imperava la convinzione che la verità empirica potesse essere stabilita attraverso un’evidenza visuale. La convinzione di una fondata valenza documentaria della fotografia va di pari passo con la fiducia nella scienza oggettiva: una scienza della verità, immune dalle trappole e dalle distorsioni della soggettività e della determinazione sociale. Verso la fine dell’Ottocento, le foto in sequenza di Muybridge sul movimento dei cavalli, grazie all’aumentata velocità d’otturazione che rendeva possibile il congelamento del movimento, mostrarono con evidenza irrefutabile per la prima volta che il galoppo volante così come veniva dipinto in molti quadri (le zampe completamente sollevate dal suolo e proiettate in avanti quelle anteriori e indietro quelle posteriori), non esisteva in realtà e le zampe invece erano rivolte verso l’interno.
Secondo la sociologa Susan Sontag:
“Una fotografia non è soltanto un’immagine, un’interpretazione del reale (nel modo in cui lo è un dipinto), è anche una traccia, qualcosa zampillata fuori direttamente dalla realtà”.
Senza dubbio questa attitudine è stata rinforzata da anni di progressi tecnologici, che hanno reso possibile mostrare aspetti del mondo fisico altrimenti impossibili da rivelare ad occhio nudo. Per fare solo alcuni esempi: la sensibilità delle emulsioni che ha reso possibile accorciare i tempi di posa e fotografare il movimento, la riduzione delle dimensioni degli apparecchi fotografici che li ha resi onnipresenti nell’equipaggiamenti degli antropologi, i miglioramenti meccanici e ottici delle lenti nelle macchine fotografiche che hanno permesso di ampliare la visione. Con l’avvento della fotografia, la pittura e l’arte in generale furono affrancate dal dovere di rappresentazione fedele della realtà e seguirono vie che le hanno portate con una formidabile accelerazione storica, verso soluzioni nuovissime, come il cubismo, l’astrattismo e le avanguardie del XX secolo. Il fatto che la fotografia producesse immagini attraverso un metodo di registrazione meccanica (all’intersezione di una contingenza fisica e una procedura chimica), mentre la pittura invece era totalmente manuale e soggettiva, fece affermare la convinzione-convenzione che le foto fossero le immagini oggettive per eccellenza. Il ruolo sociale di rappresentazione della realtà passò alla fotografia e i ritratti realistici divennero fotografici.
Le immagini in generale, come le parole, fanno parte di un sistema di segni con cui noi rappresentiamo il mondo. Per Ferdinand De Saussure, il padre della linguistica e della semiotica, un segno è formato da un significato ed un significante che stanno in relazione con un referente, l’oggetto rappresentato. L’immagine di una pipa non è l’oggetto pipa, ma la sua rappresentazione, così come la parola pipa è il simbolo linguistico che la rappresenta.
Una foto è luce fossilizzata, e la sua aura di superiore efficacia nel rendere l’evidenza è stata frequentemente ascritta allo speciale legame fra realtà fugace e immagine permanente che si forma all’istante dell’esposizione. E’ un segno diretto e fisico, come un’impronta digitale sulla scena del crimine o le tracce di rossetto sul colletto di una camicia, che stabilisce causalmente la corrispondenza con la realtà.
La tensione tra oggettività e soggettività è stata sempre centrale nelle immagini generate dalla macchina fotografica. Dopo più di un secolo e mezzo di produzione fotografica, anche noi dobbiamo confrontarci con il potente effetto di realtà che la fotografia si è costruita nel tempo. Dal momento che le fotografie sono fortemente collegate dalla contiguità con l’oggetto che ritraggono, siamo arrivati a considerarle non come immagini, ma come formule che metonimicamente evocano frammenti di realtà. Roland Barthes (La camera chiara. Nota sulla fotografia, Torino, Einaudi, 1980, p. 10-11) ha delucidato un altro complementare aspetto dell’effetto di realtà indicando che spesso le foto realistiche incorporano dettagli apparentemente insignificanti (punctum) solo perché “stanno lì” a significare che “questo è davvero un campione non filtrato di realtà”. Dal momento che le foto sono ricche di tali dettagli, esse connotano sempre la realtà.
Secondo, tutto un filone di pensiero, lo sguardo fotografico sembra fermare l’azione meglio dell’occhio umano senza lasciare nulla al di fuori della sua registrazione che si ammanta di totale obiettività. Ricordiamo l’intreccio del film di Antonioni, Blow-Up che fa perno sull’idea che un negativo possa contenere più informazioni di quelle che un occhio percepisce nell’immediato. Per cui David Hemmings, fotografo di moda nel film, ossessivamente ingrandisce l’immagine fino a scoprire un volto nascosto nel fogliame con una pistola in mano ed un corpo steso a terra.
Le foto (i significanti) sembrano incollare i significati al referente con la super-colla, apparentemente non c’è intervento umano e soggettivo nel creare questo legame, nella misura in cui è determinato fisicamente e chimicamente, e quindi presumibilmente oggettivo. Per la prima volta un’immagine del mondo si forma automaticamente, senza l’intervento creativo di un uomo. La procedura fotografica, come quelle scientifiche, sembra provvedere garanzie per superare la soggettività e rimanere agganciata alla vera realtà. Come Susan Sontag ha detto:
“Le fotografie non sembrano profondamente in debito con l’intenzione di un artista… la scatola magica assicura verità e bandisce l’errore”.
Se un pittore rappresenta un oggetto, non ne consegue che il soggetto esiste: la varietà rappresentabile dei dipinti è più ampia di quella delle fotografie, perché un pittore non deve accettare una relazione causale fra il dipinto e l’oggetto a cui si riferisce. Diversamente se una fotografia è una fotografia di un soggetto, ne consegue che il soggetto esiste, con buona approssimazione, così come appare nella foto. Caratteristica essenziale in una foto non sembra essere l’eventuale intenzione significativa, ma la relazione causale con l’oggetto registrato. In altre parole, la non esistenza degli angeli non ci impedisce di dipingerne immagini, ma sicuramente ci impedisce di fotografarli.
Non è facile valutare quali aberrazioni abbia comportato, e comporti tuttora, l’abitudine a considerare un’immagine fotografica prova immediata della realtà che illustra, sia nelle scienze esatte che in quelle naturali. Questa illusione d’oggettività portò a sottovalutare che anche attraverso l’obiettivo la creazione di un’immagine comporta sempre un certo grado di scelta soggettiva, se non altro di selezione, composizione, personalizzazione, e quindi comporta sempre un certo grado di autorialità, come in seguito cercherò di dimostrare.
Nonostante le fotografie presuppongano un processo autoriale di scelta e selezione dell’oggetto fotografato, la ricerca del fotografo di una certa inquadratura, luce ed esposizione, l’utente non esperto, o comunque privo di una coscienza critica, guardando delle fotografie, spesso ancora oggi, presume, a meno di chiare indicazioni contrarie, che non siano state rimaneggiate o frutto di una messinscena e quindi rappresentino la realtà in senso assoluto.
Questa impersonale, obiettiva neutralità delle immagini non è priva d’implicazioni: per presupposto le fotografie registrano gente reale che agisce in un posto reale. Eppure, non è così: ci sono livelli di divergenza dalla verità. Lo vedremo nei prossimi articoli, scoprendo come in epoche recentissime il nesso causale, non sembrerà essere più così vincolante.