Dieci figure a grandezza stratosferica, di cui però si perderà il gusto e lo shock di starci quasi dentro, di trasformarsi in vouyer, di frugare in ogni più piccolo interstizio, potendole incontrare solo online, ingrandite quanto si vuole ma senza l’effetto drop in che si prova dal vivo. Anche questo tuttavia ha un suo fascino e una sua utilità: si potrà rimanere per ore incollati alle foto di Cindy Sherman, l’artista americana che da oltre 40 anni fotografa ossessivamente e compulsivamente se stessa. Nelle immagini, in mostra sul sito della galleria Metro Pictures di New York (è sufficiente compilare un form con nome, cognome, mail e si entra nella galleria virtuale), le figure sono sospese sul confine dell’identità, barcollanti sull’orlo del baratro della certezza: donne o uomini? Donne che assomigliano a uomini o uomini che assomigliano a donne?  

E infatti nelle sue immagini Sherman gioca con il genere e con i generi, mescola le carte, confonde, sballa, sposta, rimuove. In molti casi riesce con l’impossibile: la stessa persona (lei stessa) diventa maschio femmina giovane vecchia glamour buzzurra clown (ai clown la fotografa ha dedicato un lavoro incredibile e anche inquietante, come inquietanti sono queste figure di artisti circensi, sempre associati allo squilibrio mentale). Nei vari scatti osservi le lentiggini, gli occhi vuoti, il portamento altero, la provincialità senza scampo, la femminilità che pare violata, la smorfia di dolore e quella di compiacimento, e poi ti fermi sbigottita a guardare meglio. E lo straniamento che si crea nella testa, nella visione, è come il retrogusto che rimane di una pietanza speziata che si posa sulle papille gustative e che a lungo lascia un’eco di sé costringendo ad assaporarla di nuovo, a riattraversarla, a ripensarci una volta e poi un’altra e un’altra ancora.

Untitled #609, 2019.
Dye sublimation print, 62 1/2 x 91 1/4 inches (158.8 x 231.8 cm)

Cindy Sherman c’è riuscita prima di tutti a ragionare sull’identità, forse addirittura suo malgrado. Le sue foto sono pura normalità. Eppure no, non lo sono affatto. Le guardi e ti sembra davvero una diva, forse è un film che ho visto? Ma quale? Quella donna vestita con un completo anni Settanta, in un paesaggio che sembra la quinta di un film: cosa c’è però che non va? Cos’è che fa subito pensare, no, no, non si tratta di un film non è una foto di scena. Cosa? Forse il naso? O deve essere quella smorfia di leggero disgusto: quale attrice la farebbe? e quell’altra, quella con la giacca gialla? Perfettamente credibile, non fosse per quel particolare: i denti in fuori.

Sono immagini piene di stereotipi che vengono smontati ma non in maniera immediata, volgare: con astuzia, senza parere, forse – come dicevo – senza nemmeno sapere di farlo. La foto glamour con i piedi tagliati, il sorriso farlocco che però è farlocco-vero, nel senso che la donna lì ritratta – la ex bellezza che non si rassegna a essere tale e ancora esagera – adesso sembra un mascherone persino nel sorriso e non fa più tenerezza, forse solo tristezza. Ti fanno sorridere, scompongono il cliché, smontano il pregiudizio, fanno vacillare la fortissima idea interna.

È nel 1981 che Cindy Sherman espone per la prima volta nella galleria Metro Pictures di New York: ha 26 anni, che per quegli anni era un’età scandalosamente giovane, e le sue foto sono un pugno nello stomaco. In apparenza non hanno nulla di scandaloso, di sfacciato, di  voyeuristico o di morboso. Raccontano una storia, e ognuno può vederci quello che vuole: una donna appena violata o una che esce dal letto dopo una notte di eccessi, o semplicemente una ragazza che si sveglia un po’ scarmigliata.

Untitled #613, 2019.
Dye sublimation print, 79 1/4 x 101 3/4 inches (201.3 x 258.4 cm)

Di sé stessa dice di essere maniacale, come quando fa vedere in un video-intervista i suoi cassetti: c’è quello con i denti, quello con gli anelli, quello con le spille, quello con le collane, quello con i nasi. Da un’altra parte tiene le parrucche, i vestiti, le scarpe, i pezzi di corpo in silicone per cambiare forma. Una mutante, un’equilibrista. Si trova anche su Instagram (e come perdere l’occasione di giocare con le immagini?): e qui lavora all’ennesima, presentando una sé stessa deformata, mostrificata, esagerata e, ancora una volta, come nel lavoro sui clown, inquietante.

I paesaggi delle immagini esposte in questa mostra alla Metro Pictures, sono realizzati da Cindy Sherman nel corso di viaggi in Bavaria, Shanghai, Sissinghurt (Inghilterra).
Lo sfondo è esso stesso protagonista nelle sue foto, arrivando spesso a diventare parte della decostruzione. Come nel paesaggio di Untitled #609, dove la coppia ricorda quella di American Gothic, l’inquietante dipinto di Grant Wood del 1930 o, anche, un postmoderno Ritratto dei coniugi Arnolfini di van Eyck, ma all’aperto. Ah! Cindy Sherman si trova anche su Instagram (e come poteva perdere l’occasione di giocare con i volti?): e qui lavora in modo straordinario, presentando una sé stessa deformata, mostrificata, esagerata e, ancora una volta, come nel lavoro sui clown, inquietante.

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