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Che cosa è l’antropocentrismo? Sembra davvero una brutta parola, uno di quei sofismi complessi che usano i filosofi per crearsi un loro mondo inaccessibile ai non addetti ai lavori, un modo per rimanere chiusi dentro la propria aurea stanza in cui non concedere l’accesso a nessuno.

Eppure, non v’è niente oggi di più potente e pericoloso dell’antropocentrismo. Per questo è urgente chiarire cosa sia questo concetto: esplicitarlo oltre le stantie stanze dell’accademia.

Quando ero bambina mio padre mi portava sempre, tutti gli anni, a sciare. Non che mi piacesse, afferravo poco il senso di tutta quella fatica: pota gli scii in spalle, indossa gli scarponi (negli anni Ottanta poche cose erano più scomode degli scarponi da scii), prendi gli impianti di risalita (20 minuti per salire 5 per scendere), sopporta le bufere di vento e neve, le alzatacce all’alba per essere i primi a varcare le piste appena battute, il frastuono delle baite e tutta quella gente ammassata l’una sull’altra per accedere ai mezzi di risalita.

Non capivo il fascino della montagna, o meglio di questa montagna, e ricordo le settimane bianche come uno degli incubi peggiori della mia infanzia.

Nella mia vita sono poi accadute cose che non mi hanno più permesso di sciare e mai mi sono più spinta sopra i mille metri fino all’età di venti anni. È stato quello il momento in cui i cani sono entrati nella mia vita per mostrarmi il vero volto della montagna, oltre la versione antropocentrica dello sciatore compulsivo.

Insieme, a passi lenti e silenziosi, io e Zia Winky (il cane che viveva con me) posavamo i nostri piedi sul fogliame del bosco, ne annusavamo l’aria, ne apprezzavamo i cinguettii, il fruscio del vento che accarezzava gli alberi, vivevamo quella realtà con il nostro corpo e quel mondo entrava dentro il nostro mondo fino al punto in cui era indistinguibile il bosco da noi e noi dal bosco.

Zia Winky è stata sempre un cane consapevole, particolarmente accorto: non tutti i cani sono così, come le persone (essendo a tutti gli effetti delle persone) hanno delle qualità specifiche per questo mi sento di raccomandare di capire se il cane che vive con noi può guidarci in questa avventura o necessita di comprendere insieme a noi l’esperienza e il segreto intrinseco che arrecano in sé i luoghi della montagna, appunto perché essa necessita di un passo leggero e rispettoso affinché possa essere ascoltata, accolta e compresa.

La Zia era compagna ideale per la montagna giacché era in grado di mettere a freno ogni spinta predatoria per il piacere di apprezzare il momento, quel candore sconcertante e perturbante della vita della montagna, come se, sospinta oltre il tedio ecologico delle nostre piattaforme esistenziali, avesse colto quel luogo, la montagna, quale spazio di riconnessione del suo principio di individuazione a qualcosa di più esteso che era la realtà tutta.

Il suo stare in quella dimensione anti-predatoria aveva svelato un volto di quel luogo differente in cui anche io, umana, potevo dismettere il mio atteggiamento predatorio nei riguardi del mondo e aprirmi a una nuova dimensione di comprensione di quel luogo magico.

Montagna come luogo di rottura dell’antropocentrismo

La montagna, quindi, non era esclusivamente quel luogo in cui sfrecciare su degli scii rischiando il collo ogni volta, non quelle atmosfere puzzolenti di fritto e musica da discoteca delle baite, non gli impianti di risalita, non quegli scarponi scomodi, ma qualcosa di profondamente diverso.

Montagna era silenzio, pace, luogo di rarefazione in cui si può accadere a una restituzione: il senso di coappartenenza con la realtà. Montagna come luogo di rottura delle dinamiche antropocentriche che ci spingono a riconoscere il mondo e la natura come qualcosa di antitetico a noi e quindi nemico nel quale sferrare la nostra più terribile azione di predazione.

Ecco il volto della montagna, quel volto di cui mi sono innamorata proprio perché mi trasformava in qualcosa di diverso dall’essere un umano e mi riconsegnava a una dimensione molto più ampia della mia esistenza.

L’antropoplastica è la conseguenza dell’atteggiamento predatorio che l’animale umano riserva alla realtà: la costruzione di un mondo senza mondo (Günther Anders, L’uomo è antiquato) nel quale ogni spazio è piegato ai bisogni, alle esigenze o meglio alle mode dell’essere umano.

Pensiamo alla costruzione di villaggi sintetici come Disneyland, a città artificiali come Las Vegas, a come negli anni il volto delle nostre metropoli – Parigi, Londra, Roma ecc. – si sia conformato sempre più alle aspettative del turismo e alla maniacale presa obiettiva della macchina fotografica rea di creare una dimensione costante di futuro anteriore (poter vivere una cosa non nel momento in cui la si sta vivendo ma solo come riproposizione della stessa attraverso il media della fotografia e dell’immagine).

La montagna si ribella a tutto questo, essa trascende le formalizzazioni dell’esperienza turistica riportandoci alla dimensione dell’essere autenticamente non solo qualcosa di vivo ma qualcosa che vive, ricordandoci che non siamo l’unica specie presente nel pianeta, per quanto la più pericolosamente infiltrativa. E quale legge dice che esiste il territorio dell’uomo e dell’animale? E come si può ancora sostenere questa dicotomia senza sembrare dei folli?

L’uomo difende la sua umanità con le unghie e con i denti ma accetta che avvengano ogni giorno centinaia di morti ad opera di dispositivi tecnici, però rifiuta che la montagna si permetta di essere viva: mai che l’uomo si ricomprenda nella catena trofica come animale che può anche essere anche mangiato (Natan Feltrin – Federica Lovato, Umani, prede e predatori, Ghaphe.it Edizioni, Perugia, 2019).

Dalla parte di mamma orsa
o dalla parte dell’umano?

Non si tratta di stare dalla parte del selvatico o dell’umano, ma di ripensarsi come animale che potrebbe anche essere mangiato: la nostra storia parla dell’umano non solo come predatore ma ante tutto come preda.

Noi siamo originariamente e principalmente delle prede, altrimenti, banalmente, non empatizzeremmo maggiormente con la gazzella che scappa bensì con la tragicità del leone che non riesce a catturare la sua preda e quindi morirà di fame.

Noi non siamo solo ciò che mangiamo ma siamo anche, soprattutto, ciò che ci ha mangiati. Non dovremmo dimenticarla questa cosa.

Così come non dovremmo dimenticare che quando posiamo i nostri piedi sul selciato di una montagna ecco che i giochi si pareggiano: non si tratta più di parlare di sostenibilità quanto di eco-proporzionalità.

Il dominatore umano con le sue sneakers, i suoi abiti tecnici, i suoi cellulari cattura immagini potrebbe non essere più in quella posizione di dominio dalla quale gestire la realtà intera. Potrebbe essere più fragile di quanto crede perché se la montagna ha degli equilibri sistemici più fragili essa espone l’uomo alla sua stessa fragilità, al suo non poter controllare tutto. In montagna non è come a Disneyland in cui Cenerentola e Biancaneve devono essere gentili e in cui la Strega cattiva deve comunque essere innocua.

Il dominio e il pensiero della tecnica vengono azzerati nella montagna. È appunto essa luogo di liberazione ma in essa non vi attenderà il riconosciuto, l’aspettato bensì il perturbante ed insieme ad esso il selvatico: ciò che non è possibile addomesticare.

La montagna ci svela sia il nostro essere animali, ma anche l’essere un’esigua, insignificante particella di un tutto che ci comprende e ci supera. Potrebbe sembrare amara questa verità, ma altrettanto consolatoria e salvifica.

Quel mantello di superiorità che da sempre indossa l’animale umano potrebbe non essere poi così comodo e potremmo provare, nel togliercelo, un certo sollievo, lo stesso che, negli anni Ottanta, si provava quando, terminata una giornata di scii, si potavano togliere gli scarponi.

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