“Gli animali non possono morire ma solo cessare di esistere”. Così afferma Martin Heidegger uno dei filosofi più illustri del Novecento.

Proprio la domanda circa la morte è una di quelle che maggiormente mi vengono poste quando mi trovo a fare delle conferenze, dei convegni o delle lezioni o anche quando banalmente prendo un caffè con qualcuno: “gli animali percepiscono la morte?”.

Questo quesito mi arreca sempre un qualche imbarazzo, innanzi tutto perché siamo tutti animali, l’essere umano per primo lo è. È stato un errore di prospettiva originatosi nella notte dei tempi a farci credere di non esserlo. Cartesio probabilmente è il più feroce sostenitore del fatto che l’uomo, completamente introiettato in sé stesso (cogito ero sum), sia composto di una materia sostanzialmente differente dal restante.

Tale lezione è stata poi non solo accolta ma estesa da pensatori contemporanei del carico appunto di Heidegger, Plessner, Gehlen ripercorrendo le fila di quel movimento di pensiero ancora pressantemente presente nella nostra epoca: l’umanesimo.

Secondo quanto espresso da questo approccio l’uomo sarebbe qualcosa di differente dalle restanti specie ed avrebbe quell’elemento di specialità che lo contraddistingue dal restante: sarebbe proprio questa eccezionalità a permettergli di percepire, vivere, afferrare il senso della morte.

Sarà che per noi umani concepire il senso della morte significa anche domandarsi circa il significato della vita (la vita si dà per la morte, ci ricorda sempre Heidegger) e per questo anche grandi pensatori – che stimo ed apprezzo profondamente – persistono nell’escludere l’altro animale dalla percezione ed appropriazione della morte, rimanendo rinchiusi in quella matrice umanistica che per alcuni aspetti limita la complessità del loro stesso pensiero.

Gli animali non umani non avrebbero senso e misura della propria morte: questo ci dice Massimo Recalcati nel suo La luce delle stelle morte, testo nel quale conduce una delle riflessioni più sofisticate ed apprezzabili sul senso del lutto nella nostra vita. Un libro che si legge di un fiato, che riesce a porre in costellazione psicologia, filosofia, arte, cinema, religione, mitologia, vita personale con l’eleganza di una mente e di una sapienza straordinaria, ma, come sempre, mi trovo a litigare con il mio amico Massimo perché non ammette l’animale nel regno delle affezioni e quindi del desiderio e dell’emozione.

Secondo quanto esposto nel testo solo l’essere umano avrebbe una coscienza effettiva della morte: “La vita animale, come quella vegetale, non esclude affatto la fine (…) tuttavia non conosce affatto la morte come destino incombente in ogni momento della vita, come possibilità sempre possibile o come impossibilità di tutte le nostre possibilità”.

Altra differenza che il Professore Recalcati rintraccia nell’esperienza del lutto animale è la mancanza di ritualizzazione sepolcrale che testimonierebbe, secondo il filosofo e psicoterapeuta, una difettosa appropriazione del senso profondo della perdita nella dimensione dell’animalità non umana.

Purtroppo, a volte, il limite delle scienze in generale è la mancanza di dialogo, l’incapacità di interfacciarsi l’una con l’altra sapendo così estendere le proprie considerazioni oltre le barriere della disciplinarità: molti sono gli esempi che si possono addurre per smontare con facilità le convinzioni per cui nel mondo dell’animale non umano non vi sarebbe un’elaborazione del lutto e una consapevolezza circa la morte.

Un testo su tutti probabilmente è L’ultimo abbraccio di Frans de Waal in cui viene raccontato il drammatico saluto tra uno scimpanzé e l’umano che lo aveva curato e supportato lungo il percorso della sua vita, sempre in questo testo ci viene narrato come in queste comunità non solo vi sia un senso della morte, ma una vera e propria celebrazione del lutto, attesa, e poi saluto. Certo, stiamo sempre parlando di primati, quindi di cugini prossimi all’essere umano che per omologia potrebbero sviluppare comportamenti simili.

Ma allora passiamo alla narrazione di Carl Safina che nel testo Al di là delle parole ci racconta di come un gruppo di elefanti, percepito che il ricercatore che era vissuto accanto a loro per tutta la vita stesse morendo, decidono di ritornare nei pressi del villaggio per vegliarlo prima della morte e dopo la morte.

Questi sono solo alcuni esempi tratti dal regno animale estendibili anche ad universi come quello degli insetti e di molte altre specie.

Io, dal canto mio, posso affermare che non solo gli animali vivono il lutto, ma percepiscono in maniera più nitida – forse perché non sottoposti alla rielaborazione razionale tipica della conformazione del cervello umano – il galoppante passo della morte nella loro vita. La consapevolezza della fine ma, soprattutto, la capacità di rendere saluto alla vita l’ho osservata nei cani che hanno vissuto con me nel corso di questi anni.

Forse se dovessi riscontrare una differenza tra essere animale umano ed essere animale non umano sarebbe proprio questa: l’animale non umano saluta il mondo, quello che ha amato con una consapevolezza diversa. Questa consapevolezza non è coscienza, non fraintendetemi, ma il saper abitare un luogo, una situazione e sapere comprendere che quella sarà l’ultima volta che lo farà indossando quel mantello che la vita terrena ci offre per abitare questa esistenza.

Ho visto il mio cane malato e prossimo alla morte affrancarsi dai luoghi che aveva amato con una intensità e un senso di abbandono che non ho mai riscontrato in un essere umano, un addio non struggente bensì ricolmo di gratitudine, di nostalgia, ma anche del saper lasciare andare, del saper salutare senza rimpianti.

Vedete non ci sono riscontri scientifici per provare quello che vi sto dicendo, ma la scienza si origina proprio dall’osservazione, dalle sensazioni, dalle emozioni, elementi che poi vengono vagliati da specifici parametri. Come afferma De Waal “questa è la mia raccomandazione, tanto semplice quanto priva di basi scientifiche, per cui qualunque accademico dubbioso sulla profondità delle emozioni degli animali dovrebbe prendersi un cane (da L’ultimo abbraccio).

Il dramma della morte non è prerogativa dell’essere animali umani, ogni essere nella vita si dà per la morte e il senso della vita sta proprio in questo superarsi costantemente per poi compiere quel passo che resta sempre e solo un grande enigma per chi non ne è il protagonista.

Proprio il tema della relazione con l’altro animale da noi e del lutto nel mondo animale verrà affrontato in un seminario che si terrà a Roncegno Terme il 2 Aprile dal titolo L’ultimo sguardo: dalla relazione all’addio.

La scelta di affrontare viso a viso questo tema è legato alla convinzione che spesse volte, negando all’altro animale la morte, abbiamo negato a noi, animali umani, la dignità e la potenza della sofferenza per la perdita di chi, nonostante non sia umano, ha significato e dato significato alle nostre vite.

Come ben ha osservato Freud nel suo scritto del 1915 Lutto e melanconia, la perdita non è solo morte di un essere umano: ci sono tanti differenti lutti nell’esistenza che possono essere la fine di un amore, il crollo di un ideale e più specificatamente l’assenza repentina di ciò che permetteva di attribuire un significato e una forma al nostro stare nella vita.

E un animale non umano non fa questo? Non dona senso alle nostre vite? E allora perché sottovalutare questo lutto? Perché continuare a negarlo in termini maniacali come se non avesse dignità?

La sfida sarà quella di riconsegnare gli altri animali alla morte perché solo così potremo imprimere dignità profonda al loro stare nella vita. Quella dignità da cui li abbiamo in maniera del tutto arbitraria ed insensata sempre sottratti.

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