Viviamo nell’epoca della comunicazione, dei social, dei like, dell’esposizione pornografica della propria esistenza eppure, non ci siamo mai sentiti così profondamente soli, isolati, imprigionati nei nostri universi personalistici che lasciano spazio solo a un vuoto incolmabile.

Ciononostante, in questa realtà solipsistica in cui l’essere umano somiglia sempre più ad un’isola, il cane si fa spazio: sempre più persone scelgono di affiancarsi un quattro zampe. Perché?

Cosa significa il cane nelle nostre vite?

Se dovessi pensare in maniera immediata e diretta a come l’essere umano tenda a costruire le relazioni in quest’epoca probabilmente farei riferimento a un film: Il diavolo veste Prada. V’è una scena in particolare in cui la protagonista, direttrice della più importante rivista di moda internazionale, Miranda Priestley, egregiamente interpretata da Meryl Streep, si reca a una festa con le sue assistenti, le quali hanno il compito, prima che lei incontri qualcuno, di ricordarle il nome e alcuni particolari della vita della persona che precedentemente avevano attentamente studiato da un manuale.

Come le sue assistenti, semplicemente imbevute di informazioni, anche Miranda non sa in realtà nulla di loro, non ha alcuna relazione con questi, ma deve fingere che per lei significhino qualcosa. Queste persone non hanno un’identità ma sono semplicemente dei mezzi, dei contatti utili da compiacere per dei fini specifici.

Tutte le vite sono votate alla ricerca di un significato e, mai come oggi, viviamo in una dimensione di simulazione di significato. E questo perché?

Perché abbiamo perduto completamente la bussola delle relazioni. Nei nostri telefoni, sui nostri social siamo pieni di contatti ma privi di amici: ricordo quanto scalpore fece l’asserzione del famoso manager inglese Mark Gaisford:

«è spaventoso ammetterlo, ma è così. Conosco molte persone, ma sono soprattutto contatti di lavoro. Sono fortunato, ho dei colleghi fantastici. Ma non ceniamo insieme, non facciamo passeggiate, né le altre cose che gli amici fanno tra loro. E non sono l’unico. Sono in tanti, in particolare uomini, a non avere qualcuno con cui parlare di cose serie. È difficile: nessuno vorrebbe ammettere di non avere amici. Ma io non ne ho».

Non siamo più in grado di entrare in un contatto sincero con un essere e di farci guidare da lui nella strada impervia, complessa, ma significante della relazione.

Eppure, noi siamo relazione: la relazione è l’essere vita della vita e ciò sia da un punto di vista biologico che etico. Noi non siamo autonomi nella formazione della nostra condizione filogenetica (Darwin, L’origine della specie) come non lo siamo per l’appropriazione di quell’identità che ci rende ciò che siamo.

Essere nella vita è sempre un viaggio alla scoperta di un mondo che porta ad un cammino oltre la la propria nicchia personale ed individuale. Di fatto siamo come una lastra di marmo votata a dover prendere forma: veniamo levigati dalle esperienze, dagli incontri e diveniamo ciò che siamo proprio alla luce di ciò che non siamo. Eteronomia è appunto questo: non c’è solo un’esperienza di mondo ma una reciprocazione continua, mentre il mondo mi forma io modello il mondo.

Come è dunque possibile diventare
se stessi senza l’altro?

Come possiamo ritrovare la nostra umanità, il nostro essere animali umani, senza una guida che ci permetta di ripercorrere quel selciato oscuro e complesso dell’identità?

Yuval Noah Harari nel suo acclamato testo Da animali a dei, nel quale ricostruisce l’evoluzione dell’essere umano dalle origini ad oggi, giustifica la grande proliferazione e sviluppo dell’animale umano proprio a causa della possibilità dell’uomo di intessere relazioni superficiali, fondate su una fiducia passeggera, momentanea.

La superficialità relazionale ha raggiunto nella nostra epoca, attraverso la dimensione del contatto, la sua massima esplicitazione con il risultato di aver creato un mondo liquido in cui le relazioni assumono quella forma di interscambio a-valoriale della merce o, peggio ancora, esse vengono prese in considerazione solo se arrecano vantaggio o un tornaconto personale.

Esempio eclatante di ciò che sto dicendo è come le persone vengono, in certi ambienti e situazioni, trattate differentemente a seconda della loro condizione sociale, del loro aspetto, delle loro scelte sessuali.

Per le classi agiate, per le persone normodotate, per gli eterosessuali e per chi appartiene alla cosiddetta normalità il mondo appare particolarmente gentile e disponibile. Maledetto è invece questo luogo per chi – talmente emarginato – neppure può dirsi di convenire a una dimensione sociale poiché troppo differente da ogni dispositivo di normalizzazione.

Le relazioni quindi non solo si fondano sulla superficialità, ma anche su dinamiche di convenienza e di guadagno che tendono ad emarginare le differenze e ad esaltare i principi di normalizzazione.

Per quanto ammiri il testo di Harari non credo che le cose siano sempre state così ed è proprio un altro autore a suggerirmelo: Aristotele. Nell’Etica Nicomachea egli scrive:

«Gli amici aiutano i giovani proteggendoli dall’errore, e aiutano gli anziani che, per via della loro debolezza, hanno necessità di cura e di supporto in più per le loro azioni, e aiutano quelli ne fiore degli anni a compiere belle azioni, come nel detto “E due vanno insieme”, perché con gli amici si è maggiormente capaci di pensare ed agire».

Ciò che ci mostra Aristotele in queste poche parole è come la relazione – e non quella amorosa bensì amicale – sia il fondamento di ogni stare nella vita. Senza l’amico l’uomo è perduto. Ma questo rapporto non si fonda sul guadagno, non è un interscambio economicamente produttivo, non si ragiona attraverso l’ottica del vantaggio, bensì attraverso quella del dono.

L’amico è un dono, e amicizia è un donarsi reciproco in cui la diversità dell’altro mi spoglia nudo e, sottraendomi dalle mie certezze identitarie, mi restituisce a me stesso. Proprio Aristotele insisterà sul fatto di come la polis (la città e quindi la dimensione sociale) si fondi sull’amicizia.

Non è il conflitto – come poi vuole convincerci Hobbes (Il Leviatano) – a sostenere la società quanto questo legame di intrinseco supporto reciproco che non è affatto superficiale ma, talmente profondo e penetrante, da essere l’unico in grado di ri-consegnare l’identità e di dirci chi davvero siamo.

Il significato si crea quindi non nella dimensione intima intesa come esclusiva ma attraverso un’intimità che è sintomo di apertura all’altro e di compromissione reciproca nella differenza.

Philia è lo stesso principio che Platone chiama in causa nel Timeo per indicare quel rapporto che tiene assieme la chora, sostanza di cui è composto ogni elemento nel mondo. L’amicizia è principio cosmologico in grado di tenere assieme le differenze proprio perché è nella diversità che si genera l’atto creativo.

Essere nel mondo è di fatto un’azione di amicizia per la diversità, di scavo profondo, del gettarsi oltre se stessi, di camminare su quella fune tesa tra sé e l’altro in modo da creare significato.

Ma questo nella nostra epoca è ancora possibile?

Il monito a cui deve guardare fisso la filosofia oggi è quello di riuscire a farsi pratica, pratica dell’esistenza. E quindi di abbattere le ristrette mura dall’accademia e della teoresi per abbracciare la vita.

Come riscoprire questo darsi all’altro?

E’ qui che emerge la figura del cane. Colui che accogliamo nelle nostre case proprio alla ricerca di un amico, quel gesto spontaneo che non arreca nessun vantaggio concreto, ma che diviene luogo di significato.

Proprio il cane, quell’animale che per antonomasia non fonda la relazione sulla convenienza, che non ha tempi brevi, che non riesce ad essere superficiale, ci farà da guida per far risplendere nuovamente il concetto di amicizia nelle nostre vite, liberandoci da quelle catene a cui noi stessi ci siamo incatenati.

Si è soliti dire che chi accoglie un cane cerca un amico, ed è in questa ricerca di un rapporto che vada oltre il selciato della superficialità che si compie un’azione rivoluzionaria: si sceglie la relazione e, attraverso questa decisione, si permette a quella luce in fondo al tunnel, mai sopita del tutto, di poter ricominciare a splendere.

Chi sceglie un cane è alla ricerca dell’autenticità

Heidegger dice in Essere e tempo che la vita dell’uomo può darsi nell’autenticità o decadere nella mera chiacchiera. Il cane è la strada per riconoscere l’autenticità della relazione, per comprendere la sua natura fondativa e per poter intessere una nuova forma di rapporto – inteso come philia – con il mondo che ci circonda.

Scegliere un cane è riscrivere la storia e il destino del mondo proprio per il significato che il cane ri-conosce nelle nostre vite.

Ma come entrare realmente in relazione con lui? Come riuscire a fare in modo che, attraverso la sua presenza, possano riaccendersi in noi concetti ormai sopiti come relazione, cura, desiderio, gesto gratuito e quindi libertà?

Come creare una sinfonia relazionale?

La sinfonia non solo sarà esplicativa della nostra relazione con il cane, ma al contempo potrà essere traslata anche nella fondazione di un ripensamento radicale della relazione tra esseri umani e quindi, di conseguenza, con il mondo.

Sono queste le domande a cui io e Cinzia Barillaro – etologa, naturalista ed educatrice cinofila cognitivo relazionale – tenteremo di rispondere con il seminario Sinfonie relazionali che si terrà su piattaforma Zoom il 7 e 21 febbraio e il 7 e 21 marzo. Per ripensare la relazione attraverso la relazione. Perché la relazione è l’essere vita della vita.

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