Come si vive il primo giorno del menarca? se sei donna lo ricordi bene, se sei la mamma anche, ma se sei il papà? La novella di Tommaso Landolfi immagina e racconta la prima mestruazione di una figlia.

Prima di stuzzicarvi l’interesse con il libro di Tommaso Landolfi, vi racconto brevemente la mia novella mestruale.

Il mio primo ciclo arrivò il giorno delle elezioni di Papa Francesco, l’11 febbraio 2013. Tra menarca e monarca passava una lettera di differenza, ad assottigliare la distanza dal Sommo Pontefice a me, meno di qualche isolato, al confine tra Roma e il Vaticano.

Il nostro primo giorno in carica, responsabilità enormi: io cominciare ad essere donna e lui cominciare a rappresentare la divina istituzione, al massimo delle nostre possibilità umane. Io dal basso, lui dall’alto.

Corpo e anima erano diventati un tutt’uno. Influenze astrologiche o divine ci avevano allineato e spinto a giocare insieme alla stessa partita di nomi, cose e città.

Il nuovo papa, Francesco, si chiamava sia come mio fratello sia come il compagno, futuro marito, di mia madre, (mio patraltro come mi piace chiamarlo), tanto che iniziai a credere alla storia dell’uno e trino. Il valore onomastico esplose di botto, come un follicolo che avrebbe accolto nascituri franceschi con porta fortuna e richiami con cui confondere tutte le creature del Cantico. Persino i calamari; i franceschini.

Le mie sacapoche usa e getta

Il miracolo per me, il papa, lo aveva già fatto il suo primo giorno di lavoro: farmi venire il ciclo all’ età di 14 anni, un’eternità per qualsiasi ragazza adolescente in attesa del processo di canonizzazione al concilio delle amiche sviluppate.

L’iter prevedeva di fare finta di nascondere il quadratino viola-vescovo dell’assorbente nelle tasche del pantalone, lasciandolo sporgere come biglietto da visita della propria maturità che usciva dalla classe per andare urgentemente in bagno, con fare da martire. C’erano evidenti segni che non potevano essere coincidenze.

Quelle cose, quel giorno diventarono le mie cose, una mia proprietà, per usucapione del mio corpo in cui vivevo da anni con fatica e attesa, come fossero possedimenti che avevo acquisito da fuori e ora mi appartenevano. Le mie cose, che cose erano? Tante sacapoche di sangue usa e getta, per ogni mese.

In casa si respirava aria di festa ed io in bagno già immaginavo il mio primo tampax da togliere come una bottiglia da stappare dopo la fumata bianca. La mia ostia era consacrata.

Ero convinta che aver avuto il menarca il giorno dell’elezione del Papa mi conferiva quella piccola dose di fede che confondo ancora con la magia. Compresi il valore della transustanziazione quando sporcai la sedia alla festa di mio cugino, finsi che era vino rosso, ma era mestruo.

Sperai in un’ascesa in cielo o una rapida discesa sotterranea, ma fui costretta a rimanere nel corpo della vergogna, in superficie, seduta su quel tessuto che nessun omino bianco avrebbe smacchiato, a sperare che sapesse di tappo per fingere vino invecchiato di ovaie pigre e stagionate. Forse aprire il rosso non era stata un’ottima idea, ma il bianco non poteva che essere la pipì di Cristo e non poteva, perché io avevo appena cominciato ad essere donna.

Distolsi mia madre dalla TV su cui era incollata a seguire il grande evento, per abbassarla alla realtà delle mie mutande appiccicose, il mio grande evento. Misi a dura prova la sua laicità, inebriata solo dalla purezza di formule latine calde di amore e accento argentino, quando percepii la sua gioia moltiplicata e vissuta come un segno del cielo.

Si festeggiava la sua Signorina nel giorno del nostro Signore, a cui rubavo la scena, involontariamente. Con il linguaggio primordiale delle specie nel momento in cui mutano secondo natura, comunicai a gesti con mia madre.

Lei entrò in bagno, parlando a bassa voce, in tema di confessionale, a metà tra un poetico spirito guida pronto ad iniziarmi e l’autorevolezza improvvisamente squillante di chi ha avuto in consegna, su due piedi, l’incarico di capo di gabinetto di sua figlia in mutande a penzoloni.

Spesso penso che ognuna, alla sua prima scia di sangue, la più scura che vedrà, perché la prima, chiama la mamma, la cometa gigante rossa. E’ forse il primo momento intimo al femminile, che da madre a figlia, passa da donna a donna.

Allora, come dietro tutte le parabole si cela una domanda, ma senza pretesa di un messaggio morale: che succede se c’è solo il papà?

Tommaso Landolfi e la sua colata d’inchiostro

Ci ho riflettuto con Landolfi. Il suo racconto, La morte del re di Francia, narra di una bambina a cui viene il primo ciclo. Dal titolo non viene da aspettarsi che parli di questo, soprattutto se tale evento viene descritto da un uomo degli anni ‘30.

Raccolte all’interno del Dialogo dei massimi sistemi, titolo dell’opera intera, la bella novella e Rosalba, la bambina, saranno state frutto di un dialogo con una donna vera? Chissà.

Tommaso Landolfi parla di colata. La sua colata d’ inchiostro è l’unico modo per un uomo di vivere qualcosa che non può fare biologicamente, ma solo con la scrittura, immaginando.

Il sangue della mestruo è un sangue puro, quello dell’uomo può essere solo impuro, ovvero procurato da una ferita.

Rosalba è figlia adottiva di Tale (è nominato così il padre), il quale le faceva fare il bagno in sua presenza, fin da piccola. Ma ora che è cresciuta sa che quel tempo è finito. Come fa a ripristinare un desiderio di intimità con la giovane donna e figlia, per cui era un’abitudine fino a quel giorno fare il bagno e denudarsi davanti al papà?

Qual è qui il limite tra un desiderio genitoriale di configurare una nuova paternità, anche intima, al pari o almeno vicina a quella di una madre che, invece, entra in bagno tranquillamente, e la sensazione di uno sguardo maniaco? Nel libro il filo è sottile e Tommaso Landolfi lo rende spinato, elettrico.

Rosalba guarda suo padre e per la prima volta in cui si lava scorge “un riso macabro” e la sera diventa “portatrice di voluttuosi terrori”. I colleghi, invitati dal padre a cena, iniziano a guardarla con desiderio e Rosalba, ancora per la prima volta riconosce il significato di quello sguardo, oltre all’epifania del complesso edipico.

Di notte fa un incubo: un mostro le morde il suo “bocciolo”. Le cala sulla coscia il sangue caldo. Nella confusione onirica impastata dal linguaggio letterario non è chiara l’origine del sangue; una ferita, un rapporto sessuale violento, la rottura dell’imene della verginità, o il suo mestruo? tutto è lecito da immaginare.

Rosalba, dopo quell’incubo, vuole chiamare suo padre, ma è trattenuta perché capisce che le sue cose erano solo cose da donne. Come? Una sensazione insinuata in una “vaga fantasticheria”, direbbero gli ottocenteschi, per definire quel limbo tra veglia e sonno.

Lo stesso limbo opacizza l’intenzione morale del contesto narrativo che l’autore vuole far passare, tra le cosce di una donna, di sua figlia, in cui il significato di quel sogno si fa problema reale. La sua intenzione non la sapremo, forse non c’è, ma si sente una ferita. Tommaso Landolfi è un uomo, la sua scrittura rigenera e scuce quelle di un uomo che non potrà mai vedere in lui colare un sangue, per così dire, puro.

Ma dove inizia la pura curiosità con la sua brama di sapere, vedere, capire la ferita colata in un passaggio epocale per sua figlia con il suo menarca e un’intenzionale impurità viscida?

Invito a chiedervelo, se mai lo leggerete e dialogherete con i massimi sistemi.

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