Lavorare meno, lavorare tutti: è lo slogan che ormai da anni rimbalza tra diversi studiosi e attivisti vicini alle tematiche del mondo del lavoro, e che con forza viene ripreso dalle testate giornalistiche ogni volta che una nazione nel mondo prova a introdurre novità sostanziali nel proprio sistema societario, come la settimana lavorativa di 4 giorni.

Lo abbiamo visto accadere con Spagna, Islanda, Giappone, Nuova Zelanda e persino con il recente cambio di rotta degli Emirati Arabi Uniti, tradizionalmente legati al riposo settimanale di venerdì e sabato secondo i dettami musulmani, e che invece da questo 2022 hanno introdotto un ulteriore riposo domenicale.

Innovazioni complesse e impegnative sia dal punto di vista organizzativo che da quello sociale, che però dai primi riscontri sembrano dare i loro frutti.

Progetti pilota di questo calibro non sono stati pensati solo dopo il 2020, ma si lanciavano già nel periodo pre pandemia, come il celebre studio finanziato da Microsoft in Giappone nell’Agosto del 2019, che segnò risultati positivi su tutta la linea: un aumento della produttività del 40% e un calo dei consumi elettrici aziendali del 23% per una settimana di soli 4 giorni in ufficio, a fronte di una soddisfazione dei dipendenti che raggiunse valori intorno al 94%.

Lavorare 4 giorni a settimana: le ragioni

La pandemia ha ulteriormente spinto sull’acceleratore di Paesi che, complice una diversa visione del mercato e desiderosi di approcciare un cambiamento veramente utile ai propri cittadini, hanno deciso di provare ad attuare un diverso equilibrio tra tempo dedicato all’impiego e vita privata.

Lavorare un giorno in meno quindi, ma a parità di stipendio: una concezione ancora molto lontana dalla nostra mentalità media e che, diciamocelo pure, ci fa anche sentire in colpa al pensiero.

Non è forse ancora largamente diffusa, almeno qui in Italia, la convinzione che solo collezionando ore di straordinari, magari anche nei festivi o nei riposi, si possa essere in grado di dimostrare il proprio valore in azienda?

Ore di lavoro: gli stereotipi che ci lasceremo alle spalle

Il futuro però si presenta in maniera radicalmente diversa, e lo spiega molto bene il professor Domenico De Masi: in barba agli stereotipi e alle comunicazioni improntate sulla produttività estrema (non per niente, account di satira come Il Milanese Imbruttito fanno da anni tanto successo) il lavoro non rappresenta più un fatto centrale nella vita. Il sociologo lo spiega molto bene nel suo volune Lavoro 2025. Il futuro dell’occupazione (e della disoccupazione), edito da Marsilio.

Sulla base di analisi storiche, è possibile dimostrare come le ore di lavoro nei cosiddetti Paesi industrializzati siano progressivamente diminuite negli ultimi cento anni, grazie ai progressi industriali e tecnologici.

Una tendenza che non si è ancora fermata ma anzi, secondo le stime esposte da Domenico De Masi, porterà un’ulteriore limatura del tempo dedicato da ognuno di noi al lavoro entro il 2030, rendendolo pari a un solo dodicesimo della totalità della nostra vita.

Un cambiamento che arriverà ad impattare persino sulla Costituzione:

“sarà ancora possibile – si chiede il sociologo Domenico De Masi – affermare che l’Italia sia una Repubblica fondata sul lavoro, se questo non sarà più così centrale per le nostre esistenze?”.

In un intervento al Giffoni Film Festival del 2021, lo studioso riesce a dare una interessantissima panoramica del suo pensiero in proposito, aprendo la strada ai suoi numerosi seminari e interventi ben più corposi presenti sul web.

Secondo Domenico De Masi
il lavoro non definisce una persona

Che il lavoro sia tutto nella vita è un concetto appartenente alle vecchie generazioni, che quindi dobbiamo avere il coraggio di lasciarci alle spalle. Rivolgendosi ai giovani nel pubblico, De Masi afferma che il dover impostare la propria vita, gli studi e le aspirazioni solo in funzione dell’impiego che si spera un giorno di svolgere sia una visione fallace e menzognera della realtà stessa.

Le competenze, il bagaglio esperienziale raccolto, serviranno innanzitutto ad arricchire la vita di ciascun individuo. L’impresa è una parte minima della vita che invece si identifica sempre di più come un sistema complesso impossibile da ridurre alla sola remunerazione di alcune delle nostre attività quotidiane, che saranno peraltro sempre più ridotte a fronte del progredire tecnologico.

Siamo quindi alla vigilia, o forse già nel mezzo, di una grandissima rivoluzione, che avrà come frutto la consapevolezza che non sarà il lavoro a identificarci ancora come individui, ma rappresenterà solo una parte delle nostre giornate. 

A mio parere questo è un concetto bellissimo e terrificante allo stesso tempo: bellissimo, perché incentiverà le nuove generazioni, a partire dalla Z, a coltivare le proprie passioni e non solo a sacrificarsi all’idea dell’impiego noioso ma sicuro, ma allo stesso tempo facilmente plasmabile a scopi meno nobili.

Come accade già ora, dalle professioni creative e di spettacolo a quelle più tecniche e processabili, la tendenza a voler creare profitto porta molti datori di lavoro a considerare formativa una mentalità di sfruttamento di risorse e capacità, mascherata dalla cosiddetta gavetta.

Con queste premesse, nessun cambiamento sarà mai possibile. Pertanto il futuro è ugualmente tra le mani anche delle leve più anziane che no, non hanno più scuse per rimanere ancora indietro.

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