Il mare a settembre ha sempre un aspetto tragico, ma affascinante.

Ha le stesse sembianze di una bella donna sulla quarantina che dopo essersi truccata con minuzia e precisione, aver indossato il suo vestito migliore per la festa, torna a casa: il trucco colato, i piedi gonfi, il vestito macchiato da vino rosso.

Nel cuore la malinconia per tutta quella aspettativa che aveva nutrito nei giorni precedenti e la delusione per essersi aspettata troppo. Quella donna però non sa che quel suo sguardo profondo e consapevole, la decadenza che la abita, l’aver tradito ogni tentativo di perfezione estetica che l’aveva guidata, la rendono, proprio in quel momento, bellissima.

Ecco il mare a settembre.

I luoghi di vacanza, quando tutto è finito, si vestono di fascino, di silenzio, di vuoto, di tragico, indossando una bellezza oltre la superficialità che mi fa sempre innamorare, di quell’amore che spezza il cuore e che non lo guarisce mai.

Tutto questo perché ieri sono stata al mare. Di mercoledì, a settembre, non ci sarebbe dovuta essere troppa gente e pensavo, quindi, di potermi accomodare e passare la giornata rapita dalla lettura: non è andata affatto così.C’era, infatti, una comitiva di bambini che con i loro schiamazzi, la loro energia ed allegria sono riusciti a catturare tutta la mia attenzione.

Ad un certo punto uno di questi bambini inizia a gridare a un altro: “devi smetterla: il mondo sarebbe migliore se tu non ci fossi”. Sono rimasta atterrita, colpita da una capacità analitica e di risposta che trascendeva di fatto la sua età anagrafica.

Ma perché quell’asserzione così forte? Cosa aveva spinto quel giovane ragazzo a gridare con una così grande potenza la sua rabbia? Il tutto perché un altro bambino, un bulletto biondino, gli aveva dato dell’animale.

L’offesa che aveva scaturito una reazione così forte era stata sei una animale.

Ecco, se avessi potuto mi sarei alzata e frapposta all’educatore e avrei detto ad entrambi i bambini che siamo tutti animali.

È stato lì che mi è venuto alla mente il testo di Roberto Marchesini Emancipazione dell’animalità.

In questo libro Roberto Marchesini conduce un’attenta analisi che va a decostruire le convinzioni della tradizione filosofica occidentale e che ci spiega come siamo tutti animali, e che la disgiunzione uomo-animale non è sostenibile, non solo da un punto di vista biologico, ma anche filosofico.

Il titolo di questo lavoro di Roberto Marchesini è particolarmente significativo, in particolar modo l’utilizzo della parola emancipazione. Infatti, anche quei filosofi (pochi) che avevano posto l’uomo all’interno del medesimo ordine tassonomico dell’animale, avevano poi asserito che compito dell’uomo era quello di emanciparsi dalla condizione animale, superarla, andare oltre ad essa per divenire finalmente umani.

Uno di questi è Arthur Schopenhauer, il quale più volte paragona il volgo, la gente normale, ai maiali. Queste persone per Schopenhauer nascono animali e rimangono tali essendogli precluso quel percorso di emancipazione, appunto, in grado di renderli degni della condizione umana.

Si diventa umani, secondo il filosofo, solo una volta superata quell’ancestralità istintuale e bruta che consegna l’essere umano alla miseria animale: si può essere uomini solo abbandonata la propria condizione animale.  

Roberto Marchesini nel sul testo ribalta questa prospettiva: infatti solo immergendosi nella propria condizione di essere animali è possibile recuperare la condizione umana e quindi non oppositiva alla realtà quanto immersiva.

L’animalità non è il lato
oscuro dell’umanità

L’animalità è piuttosto il predicato comune da cui possono germogliare tutte le specializzazioni di una specie.

Il padre del postumanismo italiano Roberto Marchesini ci insegna che non vi è essere umano oltre la categoria dell’animalità e che la dimensione umana è possibile solo a partire dal meta-predicato dell’animalità che accomuna ogni specie vivente sul pianeta. Emancipare l’animalità significa ricomprenderla all’interno delle nostre coordinate della vita.

Non si tratta più di emanciparsi dall’animalità ma di emancipare l’animalità.

La riflessione che è d’obbligo fare è quindi quanto la filosofia non svolga un ruolo innocuo sul palcoscenico della vita di tutti i giorni: quei bimbi non avevano sicuramente letto neppure una pagina della tradizione filosofica che da Platone, passando per Cartesio, arrivando alla modernità e poi all’antropologia filosofica avevano voluto disgiungere l’uomo dall’animale, ma ne avevano introiettato la visione.

Erano stati educati a considerare l’animale non solo come qualcosa di altro dall’essere umano ma, anche, soprattutto, come qualcosa di inferiore, di brutto, di pericoloso. Eppure, i bambini sono istintivamente attratti dagli altri animali, come ci ricorda sempre Marchesini in un altro suo testo, Il bambino e l’animale, ma sono stati culturalmente guidati a creare una frapposizione, una rottura con la conseguenza di porre l’animale altro dall’umano in una condizione di inferiorità e di mostruosità. L’uomo che è animale è il mostro, ciò che va allontanato con forza.  

Emancipare l’animalità significa quindi liberarla da tutti quei retaggi della tradizione che l’hanno costretta in una condizione di inferiorità e brutalità; come ben sottolinea Roberto Marchesini:

“Liberare l’animalità non vuol dire togliere le catene al nonno babbuino, nascosto nella cantina del mio essere, o far riemergere il bruto che c’è in noi (…) Emancipare l’animalità significa liberarla da quei pregiudizi che l’umanesimo le ha imposto utilizzandola come concetto controlaterale dell’essere umano”.

Il processo di emancipazione porta l’umano a non considerarsi più quell’essere speciale che ha il compito di guidare il mondo, in quanto unico creatore di mondi (Heidegger), bensì di reinterpretarsi alla luce di una tassonomia evolutiva che lo rende un essere specializzato in alcune particolari funzioni e non in altre.

Emanciparsi significa comprendere che ogni animale, nella sua diversità, ha una propria interpretazione del mondo e che ha pari diritti e valori sul palcoscenico della vita.

Essere animali è quindi la nostra condizione per eccellenza: animali specializzati ma non speciali.

Bisognerebbe sottolineare come lo stesso Darwin raffiguri l’evoluzione non con la forma dell’albero, ma con quella del corallo: non vi è alcun nucleo portante e centrale ma solo differenti ramificazioni con ognuna una pari e specifica dignità.

In questo corallo si trova anche l’animale umano che, se vuole poter continuare a fare parte della storia dell’evoluzione, ha il dovere di reinterpretare il suo posto e il suo ruolo nel mondo: emanciparsi dall’umanismo per emancipare l’animalità.

Tornando alla brezza tiepida che mi carezzava il volto ieri, a quello sguardo che si perdeva nell’infinito delle onde del mare mi sovviene non solo il solito velo di malinconia, ma anche di timore: è possibile sovvertire un mondo così profondamente normativizzato?

Come possiamo riscoprire la bellezza nella diversità e vedere essa anche nella difformità da canoni precostituiti? L’animale bello, la vera bellezza di una donna e di un uomo, il sorriso bello, gli occhi, il decadere laconico della fine come bello?

Come imparare ad avere uno sguardo diverso e trovare la bellezza in quei luoghi che ci sono stati vietati? Questa è la sfida del nostro tempo: abbandonare il limite della nostra cornice culturale per aprire terreni di soglia in cui cogliere l’ebrezza del gesto spontaneo. Innamorarsi della donna che torna dalla festa e non di quella perfettamente imbellettata che vi arriva. Provare a pensare la differenza e nella differenza.

Essere quindi animali.

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