Cecità e Covid, il nemico invisibile. “Se non siamo capaci di vivere globalmente come persone, almeno facciamo di tutto per non vivere globalmente come animali”, Josè Saramago.
C’è un #nemicoinvisibile ai nostri occhi che ha sconvolto le nostre abitudini, che ha ridotto la nostra vita a una fotocopia sbiadita, macchiata dalle lacrime di chi muore solo e di coloro che lo piangono.

Solo qualche mese fa nessuno, neanche i più catastrofisti, avrebbe potuto presagire di entrare dentro un occhio di Dalì da cui vedere il mondo fuori di noi attraverso la distorsione di uno specchio riflesso, o nel groviglio di una Guernica impazzita. E di restarci, a lungo, prigionieri di un limbo senza tempo, privati di una libertà senza gabbie, spaventati dalla povertà, nella consapevolezza timorosa che il nostro tempo, per dirla con Saramago, “è il compagno che sta giocando di fronte a noi, e ha in mano tutte le carte del mazzo, a noi ci tocca inventarci le briscole della vita”.

C’è chi muore solo, c’è chi rimane isolato, con il rischio di essere persino abbandonato da un esercito di #negazionisticiechi e senza raziocinio che con la mascherina sugli occhi, piuttosto che a coprire bocca e naso, rischiano di rendere questa guerra un #delirioapocalittico, di lasciarci orfani sulla strada a brancolare nel buio dentro una realtà peggiore delle allegorie immaginate da Cormac McCarthy in The road e da Josè Saramago in Ensaio sobre a Cegueira, le cui pagine senza speranza raccontano di una catastrofe senza ritorno che sembra esortare tutti ad una riflessione: a che serve cercare nemici, in un’inutile caccia all’untore di manzoniana memoria, o, in alternativa, rifiutare l’evidenza della realtà, i morti e la sofferenza, soffiando odio infetto come e più del virus che inaliamo, piuttosto che imparare a stare distanti senza chiudere gli occhi del cuore? A nulla, se non a restare più soli, e da soli saremmo destinati a soccombere, prigionieri della nostra oscurità. Ci sono due differenti modi per non vedere l’altro: uno è dimenticare che l’altro è il riflesso di noi stessi, e i mille schermi accesi davanti ai nostri sguardi attoniti ce lo ricordano ogni giorno, il secondo è diventare irrimediabilmente ciechi, come i protagonisti di Cecità.

Nell’incipit di #Cecità, un uomo è fermo al semaforo con la sua auto, quando all’improvviso non vede più nulla: l’uomo viene accompagnato dal medico, in breve tempo è contagiato anche lui, stesso destino per tutti i suoi pazienti. Quando la cecità inizia a espandersi in maniera capillare, il governo decide di mettere i ciechi in quarantena. Divisi in gruppi e rinchiusi in edifici fatiscenti, i ciechi tornano velocemente a uno stato primitivo e violento. Un’analisi del genere umano, quella di Saramago, che letta oggi inquieta, perché sembra quasi parlare di noi. Lo scrittore portoghese, non dà nomi ai personaggi, identifica i protagonisti attraverso le loro caratteristiche, il mestiere o il ruolo sociale: c’è il medico, il primo malato o paziente zero, la moglie del medico, la ragazza con gli occhiali, il vecchio con la benda. L’epidemia rende l’essere umano impersonale e quello che stiamo vivendo in questi giorni è esattamente lo stesso: il paziente zero, il primario, la moglie del paziente zero, il corridore, il medico, l’anziano, il fragile, il virologo, l’opinionista, il negazionista. Non abbiamo più un nome, siamo come gli uomini di Saramago, scarni e nudi, pronti a razziare gli scaffali dei supermercati, arrivare prima degli altri per metterci in salvo; a lucrare sul cibo e sugli altri beni di necessità, a commercializzare la paura negando la tragedia, la stessa commercializzazione ideologica che ancora continuano a fare squallidi leader politici nostrani e non, spesso solo per propaganda politica e sete di potere.

Volevamo i confini chiusi, senza capire che li avrebbe chiusi un #nemicoinvisibile per ricordarci che da soli non si sopravvive; volevamo il sovranismo, senza capire che senza l’aiuto dell’altro fuori dai confini del nostro schermo, sarebbero rimaste le macerie. Volevamo l’odio, senza capire che l’odio va a braccetto con la morte. Saramago scrive “È una vecchia abitudine dell’umanità passare accanto ai morti e non vederli”. Il nemico è invisibile ai nostri occhi, e noi brancoliamo nel buio di un’emergenza senza confini temporali e spaziali: oggi però fingiamo persino di non vedere i nostri morti, rifiutiamo la nostra paura, non riconosciamo più l’umanità nelle azioni di tanti, arriviamo a perseguire tutti coloro che si prendono cura di questa umanità cieca che rischia di perdere cielo da respirare, luoghi da visitare, bellezza da assaporare, abbracci da regalare, risate da condividere, volti da baciare, corse da fare tenendosi per mano, speranza da alimentare, futuro da costruire, per molto, troppo tempo.

“Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che non vedono, ciechi che, pur vedendo, non vedono”. Essere ciechi come nell’apocalisse di #Saramago, brancolare dentro gli scenari rovinosi di #McCarthy, significherebbe perdere luce e aria, annegare nella solitudine ostile, privarci degli occhi del cuore, grazie ai quali intravedere speranzosi la meravigliosa, fragile, complessa normalità del domani, consapevoli che l’unico modo per sconfiggere il nemico invisibile non può che essere, oggi, la cooperazione matura e consapevole tra gli esseri umani.

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