Attorno ai tavoli di guerra russi e ucraini non ci sono donne. Sono tutti uomini i delegati che in questi giorni tentano di negoziare una difficile tregua tra Russia e Ucraina, l’aggressore e l’aggredito. Solo uomini sono presenti anche nei consigli di guerra che si svolgono a Mosca: generali con le mostrine, dirigenti dei servizi segreti in completo scuro, consiglieri di strategia politica. Una sola donna si è vista, in uno di quei consessi ad altissimo tasso di testosterone: Elvira Nabiullina, governatrice della Banca Centrale Russa, seduta accanto ai ministri e ai consiglieri economici di Putin. E mentre si discuteva degli effetti delle sanzioni e delle conseguenze della guerra sui conti pubblici, lei sola aveva un’aria contrariata tra decine di teste maschili annuenti: evitava di guardare lo zar che incitava i suoi.

A parte Nabiullina, dicevamo, non ci sono donne laddove si decide di guerra, di bombardamenti, di confini, di misure d’emergenza. Non ci sono mai state. Eppure come negli altri, anche in questo conflitto, anacronistico nei tempi e antico nei modi, ovviamente le donne ci sono eccome, nell’uno e nell’altro fronte, e combattono anche loro l’oltraggio definitivo della guerra.

Se dunque, da sempre, lo storytelling storico è un falso, un racconto parziale che spesso omette presenza e azioni di oltre metà della popolazione, e dunque distorce, quello che sta accadendo nella narrazione di questo conflitto da parte dei media è qualcosa di mai letto, visto e ascoltato prima. Chi ha l’occhio vigile e allenato a notare i cambiamenti nella narrazione sia linguistica sia di contenuto avrà percepito come questa volta compaiano le donne: tutti e tutte sappiamo, oggi, che questa guerra è combattuta da un numero mai visto prima di donne soldate in entrambi gli schieramenti (la presenza femminile nell’esercito di Kiev è di 36.000 unità ed è superiore rispetto a quella di Mosca, il 15,6% contro il 10-12%). Forse perchè a raccontare il conflitto, questa volta sono le donne, un numero mai visto prima di croniste…

E per fortuna, perchè, dicevamo, da sempre, nella storia, l’attiva (e puramente positiva) partecipazione femminile alla guerra è stata tale da poter essere considerata come un altro esercito, rimasto assurdamente sempre ai margini delle ricerche, composto di infermiere e suore della Croce Rossa negli ospedali militari, di lavoratrici impiegate per sostituire la manodopera maschile nelle fabbriche e nei campi, di portatrici assoldate per portare armi, munizioni e vettovaglie nelle trincee. Nessuno sa, ad esempio, che che uno dei principali sistemi di difesa utilizzati attualmente in scenari di guerra è un brevetto di una donna, Stephanie Kwolek.

Quand’era piccola la Kwolek amava giocare con stoffe e tessuti, sognava di diventare una stilista. Qualche anno dopo aveva cambiato idea, voleva fare la medica e salvare vite umane. Da grande, Stephanie è diventata una chimica ed è passata alla storia per aver inventato il kevlar, una fibra sintetica super resistente impiegata per la realizzazione di giubbotti antiproiettile: si calcola che, nei soli Stati Uniti, i giubbotti in kevlar abbiano salvato la vita a oltre tremila poliziotti.

Questo materiale è utilizzato anche nella moda, per la fabbricazione di gioielli e accessori, e nella fiction: il Batman dei film di Christopher Nolan, per esempio, indossa un bellissimo costume in kevlar. Alla fine Stephanie non è diventata né una stilista né un medico, ma in un certo senso è riuscita a realizzare entrambi i suoi desideri.

Due notazioni: sicuramente una guerra, in generale, non porta mai a buoni risultati, eppure è in momenti di forti avversità che si attiva il processo inventivo umano. Perché alla fine un’invenzione non è altro che una soluzione ad un problema, e non è un caso se proprio durante la guerra, quindi in condizioni indubbiamente complicate, ne nascano più che in altri periodi (in particolare durante la Prima Guerra Mondiale abbiamo avuto una decina di invenzioni di uso ancora comune: gli assorbenti, i kleenex, l’orologio da polso, la radio sugli aerei, le zip, l’acciaio inossidabile, l’ora legale, le salsicce vegane e le lampade abbronzanti).

La seconda notazione riguarda il femminismo russo, pieno di paradossi: le basi dell’uguaglianza tra i sessi, almeno formalmente, vennero infatti poste addirittura durante l’epoca della rivoluzione d’ottobre e poi in epoca sovietica. A quel tempo, le donne russe si videro riconosciuti alcuni diritti che erano estremamente all’avanguardia rispetto ad altri paesi del mondo: il diritto di voto nel 1917, il diritto di aborto nel 1920 (anche se venne nuovamente negato tra il 1936 e il 1955), oltre a vari servizi di assistenza all’infanzia e generosi congedi di maternità.

La stessa Costituzione Sovietica del 1936 dichiarò la parità tra uomini e donne. Da un punto di vista sostanziale, però, per le donne la vita restò sempre molto complicata e la società russa continuò a rappresentare un modello conservatore e patriarcale, oggi pubblicamente difeso e rivendicato non solo dalla Chiesa Ortodossa, che ha definito il femminismo un peccato mortale, ma anche dal presidente Vladimir Putin: «Qui le donne hanno un unico ruolo: quello di essere asservite e silenziosamente sottomesse», ha scritto qualche tempo fa la giornalista russa Yevgenia Albats.

L’invenzione è donna, non la guerra.

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