Come si vede nella foto di copertina, una nota multinazionale svizzera, specializzata nella commercializzazione di prodotti a base di cacao, caffè, latte, molti dei quali destinati a bambini, e destinataria di moltissime critiche nel corso degli ultimi anni, ha deciso di predisporre un’etichetta molto dettagliata per la presentazione di un suo noto e diffusissimo prodotto. Non solo, con la stessa intende informare i consumatori che nel prodotto che stanno acquistando ci sono sostanze nutritive che fanno bene alla salute, come lo zinco, il ferro e la vitamina D.

È una buona notizia. Anche perché posso dire con buona certezza che io stesso, quando ero bambino e consumavo quel medesimo prodotto, questo non conteneva tutte quelle vitamine e sostanze nutrizionali di cui è ora ricco, a quanto leggiamo. E anche perché allora nemmeno ce ne preoccupavamo. Mentre ora è una priorità.

È senz’altro una cosa positiva, ma questa immagine ci dice anche molto altro.

In primo luogo, ci mostra ancora una volta l’importanza dell’opinione pubblica e della sua diffusione e condivisione nel condizionare le modalità con cui vengono prodotti e lavorati gli alimenti che mangiamo. Se in questi anni alcuni scandali che hanno coinvolto quella società non fossero venuti alla luce, i manager a capo della stessa non si sentirebbero in dovere di rendere il loro prodotto migliore: più sano, più equilibrato, affidabile. Ecco quindi un primo punto importante: le inchieste, le critiche, il boicottaggio fanno bene. È sempre utile che si parli di cibi controversi e di come sono ottenuti. E si può sempre migliorare.

In secondo luogo, dà conferma del fatto che le etichette sono importanti, vanno lette e occorre pretendere che esse siano chiare, esaustive, complete. E lì dove siano mendaci o ingannevoli ci vuole un’autorità pubblica – che c’è, ed l’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari del Ministero delle Politiche agricole – deputata a controllarle e sanzionare le ditte che non rispettano le norme. Perché noi quelle informazioni le leggiamo in etichetta, ma possiamo ritenerle veritiere? In linea di principio sì, finché funzionano i controlli sull’agroalimentare e sulle possibili frodi commesse dai produttori.

In terzo luogo, deve farci mantenere alta l’attenzione. Perché la presenza di determinate sostanze benefiche non vuol dire che tutto il prodotto in sé è destinato a fare bene o che è stato ottenuto nelle condizioni giuste, anche se il riquadro in basso a sinistra dà conto anche delle condizioni dei lavoratori e dell’ambiente in cui è stato lavorato. E poi perché a volte le etichette dicono troppo, rispetto a ciò che c’è nel prodotto: a volte si trovano indicazioni di proprietà o effetti di quel cibo che ne aumentano indebitamente le qualità.

Queste tre questioni mettono al centro il concetto di informazione dei consumatori, che assume una centralità speciale, per via delle cosiddette asimmetrie informative. Queste ultime consistono in quel gap di informazioni che vi sono tra produttore e consumatore, per cui il secondo non conosce nel dettaglio caratteristiche, qualità e difetti del bene che acquista, che invece sono noti a chi lo produce. Di qui, il più delle volte, si orienta solo con il prezzo. Spesso sbagliando.

Nel caso degli alimenti la questione è ancor più complessa. Non solo perché alcune lavorazioni alimentari rendono determinati cibi poco salutari, ma anche – banalmente – per la qualità degli stessi: molto spesso consumiamo prodotti che riteniamo di qualità o ci accontentiamo di prodotti scadenti ma economici, senza sapere che ci sono alternative migliori, più salutari, con proprietà organolettiche superiori.

A fronte dell’impossibilità che un’autorità pubblica testi e approvi o respinga tutti i cibi messi in commercio e ci dica cosa è buono, cosa è salutare e cosa non lo è, e considerando che un’ipotesi del genere sarebbe comunque da evitare perché, con un eufemismo, suonerebbe troppo paternalistica, la soluzione migliore è quella delle etichette.

Le etichette parlano, ci dicono molto dei cibi che acquistiamo, anche se spesso lo fanno in modo criptico, ermetico o troppo prolisso. A volte, come detto, ci dicono troppo, suggerendoci effetti che quel cibo non produce realmente.

Occorre inoltre distinguere tra etichette volontarie e obbligatorie.

Nel primo caso c’è poco da dire: siamo al limite con la pubblicità e il controllo pubblico sulla correttezza di queste informazioni è a dir poco fondamentale. Ma si tratta comunque di uno strumento utile per il consumatore, che può informarsi su eventuali proprietà benefiche o sulla presenza di sostanze e nutrienti utili alla sua dieta. In questa operazione però una grossa fetta di responsabilità ce l’abbiamo noi consumatori, che dobbiamo essere informati e attenti, in modo da interpretare e capire quel che leggiamo sulle confezioni.

Nel secondo caso, invece, entriamo in un terreno delicato, ma molto importante: cosa deve esserci assolutamente su un’etichetta alimentare? Per esempio gli ingredienti, anche se molti di questi non li conosciamo. E qui, infatti, occorrerebbe maggiore informazione e maggiore chiarezza da parte dei produttori. Altra informazione obbligatoria: calorie, zuccheri, quantità di grassi.

E poi? E poi c’è il tema, delicatissimo, dell’origine del prodotto, che dovrebbe indicare dove questo è stato coltivato/allevato, dove è stato lavorato, dove è stato confezionato. In un mondo globalizzato, in cui si ritiene giusto che i cibi viaggino da paese a paese e in cui ci fa piacere poter comprare facilmente la spezia indiana, il latte di cocco tailandese, lo sciroppo d’acero canadese o la salsa piccante messicana, i regolatori pubblici dovrebbero spingere in alto l’asticella della tracciabilità, costringendo le imprese a ricostruire tutta la filiera dei prodotti, siano essi confezionati o sfusi, vegetali o d’allevamento.

Non solo, come indicato in un precedente post, anche le modalità di produzione dovrebbero essere indicate sulla confezione, non solo quando queste sono positive (da agricoltura biologica, allevato a terra, senza aggiunta di coloranti, no OGM, ecc.), ma anche quando possono scoraggiare il consumatore (da agricoltura intensiva, coltivato con uso di pesticidi, contiene OGM, allevato in batteria, ecc.).

Perché con l’informazione si fa regolazione, e con la regolazione si persegue l’interesse pubblico, ossia la salute, il benessere e la qualità di vita dei consumatori di alimenti. Quindi di tutti.

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