Weird, ci ricorda Veronica Cruciani nella sua bella prova aperta, riferendosi ad un saggio di Mark Fisher, è qualcosa di più che “bizzarro, inusuale, stravagante, Weird è un aggettivo che spariglia le definizioni, permettendo ai confini usuali d’incrinarsi. .. Solo approssimativamente, infatti, il weird può essere reso con il termine strano”. Fisher spiega queste categorie attraverso le arti e le epoche: il weird si rivela così nei racconti di H.P. Lovecraft, nelle canzoni dei Fall, nei romanzi di Philip Dick e nei film di David Lynch, ha piuttosto a che vedere con l’attrazione per l’esterno, per ciò che sta al di là della percezione, della conoscenza e dell’esperienza comune, il reale si apre dunque all’ignoto, all’incubo e all’incanto.

Ed è fin dalla sua introduzione del catalogo che Fabrizio Arcuri, direttore di Short Theatre, giunto alla sua quindicesima edizione, parla di un “miracoloso manifestarsi del Festival… come frutto di uno sforzo collettivo, dono in una terra che si fa sempre più inospitale” in un momento in cui i mesi trascorsi impongono di guardare al cuore delle cose con tutta la violenza che ciò comporta. Un’edizione che apre lo sguardo alla cooperazione, che sceglie la strada della sottrazione, fin dall’assenza del consueto sottotitolo. Una… “casa da riprogettare in un orizzonte che si manifesta squarciato, confuso, trasformato, magmatico a volte tossico” in una manifestazione che nulla ha di divino ma riguarda invece la nostra concreta, umanissima capacità di trasformare, il potere tutto terreno di disseminare desiderio, distruggere come opzione erotica in un passaggio che preluda al costruire. “Let my building burn” recita il frontespizio del catalogo stesso. Così in una festa di passaggio, un archivio dello stare insieme, all’interno di uno spazio più largo, in un’atmosfera più rarefatta per le norme anticovid – dove rappresentiamo tutti il quotidiano prodigio della contagiosità da in piedi che sparisce quando ci sediamo – con le nostre sempre più stilose e colorate mascherine distopiche, tra un falò stile tuareg, un’aria da occupazione del liceo, le polpette a cinque euro, visito l’installazione di Forensic Oceanography, che presenta quattro ricerche/indagini ognuna delle quali affronta una specifica modalità di violenza di frontiera. Quattro opere video, una per ogni indagine; una rappresentazione grafica della cronologia temporale che situa le diverse indagini all’interno dell’andamento – oscillante – del controllo dei confini e della (non) assistenza in mare, e mette in evidenza le drammatiche conseguenze di questo modello per la vita dei migranti volta a  svelare l’instabile regime estetico operante sulla frontiera mediterranea.

Poi assisto al lavoro dell’artista Giorgia Ohanesian Nardin che intreccia autobiografia, riflessione teorica e ricerca artistica. Գիշեր | gisher “ha a che fare con la storia personale, con le radici profonde di un’identità prismatica, con l’eredità ancestrale e il trauma intergenerazionale di chi discende da una cultura perseguitata come quella armena” narrando attraverso un video per lo spazio scenico. Al centro  ci sono le immagini, che moltiplicano e scompongono la visione chiedendo a chi guarda di Orientarsi. Ci sono le parole, scritte e raccontate e offerte e tradotte e lette ad alta voce. Գիշեր | gisher è l’azione dell’alimentare, del tenere acceso, del bruciare, con particolare riferimento al genocidio armeno. Ci troviamo a stare con la sensazione ereditata del sangue versato, della terra sottratta, ma soprattutto delle parole che qualcuno ha tentato di ammutolire, senza riuscirci.

Sono forse diventata i miei meccanismi di sopravvivenza? E’ la domanda chiave di Nardin che forse ci riguarda tutti.

“Noi artisti apprezziamo in modo particolare il lavoro che si svolge durante le prove e questo prezioso percorso non è quasi mai accessibile allo sguardo del pubblico. Per questo ritengo che l’idea di Short Theatre con Fabulamundi di programmare alcuni giorni di prove aperte sia stata un’ottima intuizione, in linea con il processo di scrittura di Sacra Famiglia, in cui il co-produttore non ha imposto all’autore un team artistico predefinito e non c’era la pressione di una data di debutto. In questo modo ha fornito all’autore il tempo per scrivere oltre che l’occasione per discutere il suo lavoro insieme al futuro regista e a diversi gruppi di attori, pagati per pensare” scrive la regista Veronica Cruciani che per Panorama Roma quest’anno lavora sul Sagrada Familia di Jacinto Lucas Pires, aprendo le porte del suo cantiere creativo al pubblico. Con Marco Foschi, Silvia Gallerano e la straordinaria giovanissima Benedetta Calogero, narra di una famiglia che sopravvive in una precarietà molto attuale, cerca di essere felice ma non ci riesce e giunge a un finale tragico. Non vogliono accettare di continuare a vivere come persone da meno e quindi si inventano una nuova religione dell’amore. Da qui a un partito politico è un passo.

Così tra un piacevole senso inedito di apertura, riferimenti alla sit com, predicatori americani, la nuova religione definita de La merda, la bambina mutante esorcizzabile, assistiamo ancora a qualcosa di ancora meravigliosamente vivo, interattivo, teneramente weird, una possibilità da ricordare dei nostri tempi strani. Nell’augurio che essere pagati per pensare torni ad essere sport nazionale in un futuro ancora più inimmaginabile di quello attuale.

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