Murgianesimo. Questo neologismo proposto da Eugenia Romanelli è sicuramente un concetto epocale in grado di indicare non solo la persona di Michela Murgia, ma di racchiudere la radicale svolta di atteggiamento e pensiero che ella rappresenta.

Oggettivizza la sua presenza, superando i limiti della fatticità ridendo così in faccia al nulla che rischia di sovrastare e ammutolire le nostre vite. Siamo esseri umani, e l’umano, come ci insegna il magistero di Lacan, è nel linguaggio; è nell’opera della lingua che l’animale umano non solo declina sé stesso, ma si fa declinare a sua volta in un’opera di esteriorizzazione interiorizzata.

Per questo le parole sono per la nostra specie così importanti. Non perché ci classificano come animali superiori quanto piuttosto perché il nostro modo di approcciarci al mondo è linguistico, noi dobbiamo nominare, dire, altrimenti per Sapiens tutto si perde nell’indistinto.

Si è detto e scritto molto riguardo Michela Murgia, persona che con coraggio si è battuta affinché i vecchi modelli sociali venissero abbattuti. Maschilismo, patriarcato, abilismo, misoginia, sessismo tutti limiti del nostro mondo, perfettamente rappresentati dai limiti del nostro linguaggio: fa ancora scalpore che oggi una donna avvocato pretenda di avere una declinazione al femminile della sua professione, e si vorrebbe far apparire questa richiesta una forzatura del sistema, una sorta di esagerazione radical-chic perché “ormai le donne hanno gli stessi diritti”, dimentichi che ogni effrazione del linguaggio è anche un assalto a una struttura consolidata.

Michela Murgia in un’intervista fa notare come l’intersezionalità dei diritti – là dove si intende che a seconda di quante minoranze rappresenti e accumuli, e quindi più ti discosti dalla tanto osannata normalità sia un fatto inequivocabile: se sei una donna hai meno dignità di un uomo, ma se sei una donna di colore ne hai meno di una donna bianca e così via.

E’ per questo che diventa utile la lettura di alcune pagine della filosofa post-strutturalista statunitense Judith Butler per comprendere quanto il concetto di normalità sia privo di fondamento. Le donne non dovrebbero avere una stanza tutta per sé (Virginia Woolf) ma essere sul palcoscenico del mondo. Eppure le cose non sono cambiate, denuncia Michela Murgia. Il murgianesimo non è un processo interiorizzato e forse, purtroppo, neppure esteriorizzato, quanto meno da questa insana società.

Una settimana fa, il 12 giugno, è morto Silvio Berlusconi. Lutto nazionale per un uomo che dicono aver rappresentato un’epoca. Le narrazioni sulla vita e sulla morte del Cavaliere sono state talmente edulcorate (e sono generosa nel definirle così) che alla fine se mi accoccolavo per bene nel racconto propostomi da Cesara Bonamici, ecco, provavo dispiacere anche io per il “grande uomo, padre di famiglia, amante del suo Paese” che troppo presto ci ha lasciati (alla giovane età di 86 anni).

Ma non è di Silvio che voglio parlare, quanto di una frase detta proprio su Canale Cinque (la sua Mediaset), durante la commemorazione del Presidente (?), in cui un giornalista, Nicola Porro, ha affermato riguardo l’ultima compagna di Berlusconi: “Donna stimabile Marta Fascina: sapeva stare un passo indietro”. Viviamo ancora in una realtà in cui la donna deve stare un passo indietro all’uomo, in cui essere femmina significa solo essere un orpello che sa stare al suo posto.

Murgianesimo vs maschilismo e berlusconismo

Ecco che torno alla questione cardine: il murgianesimo. Il 25 maggio è stato pubblicato un articolo firmato Massimiliano Parente in cui lo scrittore italiano attacca Michela Murgia dalle pagine de il Giornale: la definisce femminista e mediocre scrittrice non dimenticandosi di sminuire anche l’amica di merende, l’altra terribile femminista, Daria Bignardi.

Donne che evidentemente non sono state capaci di stare quel passo indietro per consentire all’uomo di risplendere, femmine che hanno chiesto di avere una luce propria e di portare avanti le proprie cause e non quelle di un ente maschile dominante.

Per questo sono attaccate, condannate ad essere poco femminili (ma che cosa è la femminilità? Il modello stereotipato della casalinga anni Cinquanta o la velina lasciva che danza sui tavoli in televisione e ad Arcore?).

Tuttavia, il buon Massimiliano Parente non si limita ad attaccare le qualità letterarie di Michela Murgia ma si spinge oltre, accusandola di spettacolarizzare la sua malattia a fini di lucro. Quindi non solo non sa stare un passo indietro lasciando a loro, grandi scrittori maschi, il palcoscenico della letteratura italiana, ma si permette anche di parlare di sé, della sua malattia e di farlo in maniera del tutto innovativa.

Il libro “Tre ciotole”
e il tema della malattia

Infatti, la Murgia non cade all’interno della retorica del tumore da combattere, ella non indossa quell’assetto da guerriero a cui viene obbligata ogni persona che è malata ma, semplicemente, dolcemente, riconosce la malattia come parte di sé. Come una delle possibili parti del suo essere un organismo complesso. “Se fossi stata un ameba” le dice il dottore del primo racconto contenuto in Tre ciotole “non ti saresti ammalata ma non avresti neppure scritto romanzi”.

Finalmente una persona che parla di malattia senza doversi tramutare in un milite ignoto che parte per la guerra: una guerra che deve combattere, affrontare e vincere.

E chiedo io: quelli che non vincono? Sono colpevoli? Sono fragili? La persona che sconfigge un tumore (come il nostro Silvio) è forte, e quella che invece muore cosa è? Chi è?

Michela Murgia ci ha dato, con questo testo e in particolar modo con il primo dei racconti contenuti, Espressione intraducibile, l’ennesima grande lezione di una vera fuoriclasse culturale: la vita non è una guerra anche quando ci troviamo dinanzi a una salita da scalare.

La vita non si combatte ma si vive, la vita non solo si nomina (in quanto animali della lingua) ma si assapora. E anche la malattia è vita, anche la morte è vita proprio perché anche essa è una trasformazione. Certo può essere dolorosa, può scavare nell’anima e nel corpo, ma non si combatte quanto si accoglie.

A dire queste cose non è una persona sana: a tredici anni il mio sistema immunitario ha deciso di non funzionare più e a venticinque lo ha fatto il mio cuore. Sono stata operata due volte a cuore aperto e adesso, forse, me ne dovranno trovare uno nuovo.

Non parlo a vanvera, non ho un tumore, ma la mia vita è in bilico come quella di un acrobata che cerca sempre di stare in equilibrio sopra a una fune. E, sinceramente, la retorica della battaglia l’ho sempre trovata inappropriata in quanto richiama quel principio performativo ed abilista che abbiamo di fatto interiorizzato da una tradizione misogina, quella che se sei una donna in gamba dice che hai le palle.

Io capisco Michela Murgia quando asserisce che sa che non ha niente da perdere. Perché davvero nella vita non si ha mai qualcosa da perdere, ma si possono solo accettare le trasformazioni: ogni trasformazione è una sottrazione, anche il bruco deve abbandonare la sua crisalide per diventare farfalla.

Abbiamo solo timore del cambiamento perché è più facile pensarsi umani che dominano il loro destino, la loro vita, senza a loro volta essere dominati da essa. Eppure, per quanto forte è stato il potere del maschio bianco, economicamente solido, sessualmente attivo ed eterosessuale, influente, apprezzato, amato, osannato (“l’uomo che non deve chiedere mai” recitava una pubblicità di qualche tempo fa), colui che non aveva destino ma guidava il suo destino, ad un certo punto, anche a lui, è sfuggito il timone della nave… ne siamo tutti rimasti increduli (?) ma la vita fa quello che vuole.

Invece, secondo quanto espresso da Parente (uomo bianco, eterosessuale, abilista ecc. ecc.) è doveroso parlare della malattia come di una guerra e una donna (se fosse stato un uomo avrebbe detto lo stesso?) non può neppure avere un’interpretazione propria della sua malattia, non può scegliere come intendere il suo cammino all’interno della propria intimità, perché altrimenti viene accusata di voler lucrare.

Quando la vita si palesa nella sua essenza non è il soddisfacimento economico a muovere. Sono altre logiche. Quando si riconosce la vita non lo è neppure il potere o l’apparenza.

Muore un grande presidente dicono, ma il berlusconismo lo trasudiamo da ogni poro; ed esso è maschilista, misogino, bullista, pericoloso, abilista, ed è perfettamente rappresentato dalle parole di Parente nel suo delirante articolo.

Michela Murgia si augura di non morire in una realtà politica come quella che stiamo vivendo attualmente. Io non ti conosco di persona Michela, ma mi auguro che tu non muoia, mi auguro che aspetti per la tua trasformazione perché questo Paese ha ancora tanto bisogno di te, perché le nostre donne non devono stare un passo indietro, ma essere evidenziate. Viviamo in una società in cui una donna può essere esibita, ma non può esporsi altrimenti il rischio è quello di diventare una strega femminista.

Forse questa è l’unica guerra da combattere, ma come lo hai fatto tu: con gentilezza, educazione, intelligenza ed eleganza. Sempre una spanna sopra agli altri. Un passo avanti, non in una stanza tutta per sé (Virginia Woolf), ma scendendo nel teatro del mondo perché non solo è nostro diritto, ma nostro dovere.

Spero di poterti veder vivere ancora a lungo Michela Murgia, per trasformare l’incubo antropocentrico berlusconiano nel sogno del murgianesimo.

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