La letteratura è ricca di proiezioni distopiche con adulti banalmente orribili e scarsamente lungimiranti e adolescenti feroci costretti a provvedere da soli alla propria sopravvivenza.

Più raro è trovare un romanzo che riesca a raccontare con tanta vividezza le storie di questi ragazzini obbligati alla sovversione come accade in Nati nuovi. L’apocalisse dei ragazzini di Domitilla Pirro (Effequ).

Da brava (bravissima) architettrice di mondi possibili, Domitilla Pirro crea per il suo romanzo un ecosistema alterato in cui gli adulti non ci sono più e tutti i giovani umani subiscono una trasformazione che li vuole spropositatamente forti, aggressivi, resistenti.

Una vera e propria adolescenza aumentata che si sviluppa a partire dall’innesco – uno scoppio improvviso di energia con i sintomi più vari (un colorito di cera, temperatura corporea elevata, scatti della testa, enorme aumento della forza, rigenerazione delle ferite quasi istantanea, riflessi accentuati) ­– e ha conseguenze disastrose.

“È un po’ come col ciclo, ricostruirà poi Vera: succede a tutte le persone di un biogruppo omogeneo; succede a partire da una data variabile e fino a una data variabile da soggetto a soggetto; porta i sintomi più vari e altrettante modifiche dell’umore – che già prima era sempre un po’ nammèrda, l’umore, dirà Vera.”

Sono i Nati Nuovi, i nati due volte, i sopravvissuti: giovani spaesati alle prese con un mondo rovesciato dall’insipienza dei grossi, gli adulti, e costretti a fare i conti con un furore spesso difficile da controllare. Alcuni di loro hanno fatto gruppo, si chiamano “I diti” e, prima per disperazione, poi per affetto, si trovano, si uniscono, si danno forza a vicenda in quella che sembra una favola oscura dove la morte è sempre in agguato.

Con loro (Vera, Gec e Ari, Gabri, Lena e Rica) Domitilla Pirro esplora la credulità visionaria e l’energia viva (vivissima) dell’infanzia e della prima adolescenza, e lo fa con un lavoro linguistico originale e mimetico ricco di slang e inflessioni dialettali (ci troviamo in un luogo di fantasia nel Lazio), ma soprattutto di grande ironia.

Lo stile è dirompente, come già accadeva in Chilografia (Effequ, 2018), e meraviglioso è il modo che ha l’autrice di far agire la fantasia (sua e dei suoi personaggi) verso spazi narrativi davvero inesplorati.

È così che l’intero romanzo diventa un’esperienza di creatività, di invenzione. Un non-luogo in cui ritrovare i ragazzini e le ragazzine che eravamo, le qualità misteriose che avevamo a quell’età. Quella realtà capovolta, deformata, slabbrata che pure ci appartiene più di qualunque altra.

Condividi: