Se ad un certo punto decidete di imprecare tutti santi del Paradiso e tirar giù i 365 gesummaria a cui è dedicato il calendario liturgico, sappiate che state per guadagnare l’Inferno e non va bene; se al contrario decidete di usare le parolacce, magari non sarete amorevoli col prossimo, ma di certo non brucerete con Satana o Barbablù.

Se dunque dovete far necessariamente ricorso al tristiloquium turpissimum come lo definiva Dante, vi consigliamo di usare le male parole: le parolacce offendono lo stesso (ahimé), ci si sente comunque liberati da un’ira interiore e, senza saperlo, attingerete ad un patrimonio di termini che nascono buoni e muoiono cattivi.

Pietro Trifone, storico della lingua italiana, docente universitario e accademico della Crusca, passa in rassegna gli improperi dell’italiano e ne dà un interessante spaccato linguistico nel libro: Brutte, sporche e cattive. Le parolacce della lingua italiana.

Appurerete così che nel GRADIT (Grande dizionario italiano dell’uso diretto da Tullio De Mauro) le parole contrassegnate con l’accezione di volg. sono solo 365, che però Trifone riduce a 323!

Le parole scurrili che appartengono al vocabolario di base, cioè quelle usate come se non ci fosse un domani, sono 7: culo (av. 1300), duro (av. 1250), montare (av. 1324), pacco (sec. XX), palla (sec. XIX), puttana (sec. XII), rompere (sec. XIX). Quelle di largo uso sono in totale 185, mentre hanno un uso limitato solo 81 insulti.

Nota l’autore che la maggior parte dei gentili epiteti che usiamo quotidianamente presentano una data di nascita che va dal 1900 al 2004 (settima edizione del vocabolario presa in esame), cioè a dire che è solo dal secolo scorso che siamo diventati un popolo di male lingue. Il sostrato cui attingono le parolacce inoltre fa capo a due grandi aree semantiche: sesso ed escrementi.

I primi lemmi italiani ad esser presi in considerazione dallo studioso sono vaffanculo e stronzo. Non starete nella pelle nel sapere che la prima attestazione del lessema vaffanculo risale al 1953 (sempre secondo il GRADIT) nasce come improperio, ma cresce come complimento (si fa per dire) perché col passar del tempo comincia ad appartenere a quei termini che hanno assunto un significato più ampio.

Nella frase riportata nel libro: “Affanculo, France’, questa sì che è ‘na gran notizia!” la parola smette di essere ingiuriosa per esprimere apprezzamento “assumendo il valore di un’esclamazione del tipo ‘evviva, urrà’”.

Più snello il vaffa la cui prima attestazione risale agli anni ’70, salvo poi diventare lo slogan di un movimento politico italiano di ultima generazione.

E stronzo invece? La parola muta l’accento ed il pensier e dal longobardo strunz = sterco, cambia significato nel corso del ‘900. Con gli A stronzi! di Carlo Verdone diventa segno di familiarità, intimità, affetto, e non conserva più la matrice offensiva.

Un discorso a sé merita la parola puttana che come abbiamo visto risale al XII e deriva la sua etimologia da putreo, sporco – puzzolente, come i lupanari in cui si esercitava questa professione già dai tempi dei romani.

Aggiungiamo noi che il termine ha numerosi sinonimi nel mondo classico come: meretrice dal latino meretrix derivato da merere = guadagnare, con possibile collegamento con merx, mercis = merce, ad indicare la merce più antica con la quale si guadagnava fin dalla notte dei tempi. Oppure lupa con la doppia accezione latina di lupa e prostituta (da cui il lupanare). Ma anche fornicatrice, di quelle signorine cioè che si riunivano presso i fornici dello Stadio di Domiziano sotto Piazza Navona e adescavano i clienti.

Tornando al libro però, a Roma esiste la prima attestazione del termine con cui si apostrofano le donne di malaffare trascritta a mo’ di vignetta negli affreschi sotterranei della chiesa di San Clemente. La celeberrima frase: “Fili dele pute, traite” risalente alla fine dell’XI-XII sec. non ha bisogno di traduzione e rende ragione di ciò che stiamo dicendo. Andare per credere!

Se a questo punto la vostra idea è quella di rimpolpare la libreria con testi dal contenuto improbabile, sempre consigliati da Trifone, citiamo: Dizionario storico del lessico erotico italiano di Boggione e Casalegno, oppure l’attenta lettura delle poesie La madre de le Sante e Er padre de li Santi di Belli dove è possibile apprezzare un certo virtuosismo ironico nel trovare i sinonimi degli organi riproduttivi femminili e maschili. E quindi: cunna, potta, patacca, fissura, grotta, frittella, vaschetta oppure stennarello, attacapanni, moccolo, mmaritozzo, ssanguinaccio e compagnia cantando!

Nel rendere omaggio ad uno dei più grandi padri della linguistica italiana, non possiamo non citare il compianto Luca Serianni in Sul turpiloquio nell’italiano scritto contemporaneo pubblicato in Noio volevàn savuàr, in cui indaga a suo modo la pletora dei termini scurrili della nostra lingua.

Se vi state chiedendo perché oggi il turpiloquio rientra non solo in un lessico amichevole, ma anche politico, ecco la risposta di Tullio De Mauro (riportata da Trifone) secondo il quale ciò che spesso vediamo nelle aule parlamentari

“non è la causa ma è l’effetto di una tendenza generale al parlare un po’ ‘scollacciato’ […]. Negli anni Settanta e Ottanta le parolacce esistevano naturalmente […] ma non comparivano con grande frequenza ed erano piuttosto marginali […] Invece adesso dilagano. Soltanto i testi accademici sono, almeno per ora, privi di male parole. Ma giornali, letteratura, romanzi, teatro, cinema, televisione, perfino aule giudiziarie, vedono frequentemente occorrere il gruppetto delle male parole più clamorose. […] L’abuso di male parole da parte dei politici risale almeno agli anni Novanta”.

Se dobbiamo infine andare alla ricerca di un centro propulsore di blasfemia, sempre secondo Trifone, quello è certamente Roma, città in cui tra insulti, modi diversi per apostrofare gli imbecilli, talune imprecazioni che volano dai finestrini delle automobili, si ha la capitale del turpiloquio e del disfemismo.

Condividi: