Nia Dennis è una brillante ginnasta della Ucla. Fino a qualche settimana fa,  Nia, era conosciuta solamente dagli addetti ai lavori. Il 23 Gennaio però quella parte di mondo corrispondente al Vecchio Continente la scopre. Nia arriva on line con un video. Nessuna protesta. Nessun messaggio politico. E’ una gara. La prima del 2021. Quella che apre la stagione di ginnastica. 

Nia Dennis è sul tappeto blu pronta ad esibirsi. Per lei non è più questione di tecnica. Chi ricorda le fantastiche esibizioni di Katelyn Ohashi sa che tipo di atlete escono dalla Ucla. No signore. Per lei, è ormai una questione di identità. Portare su quel quadrato blu un pezzo di quel mondo interiore fatto di infanzia, ricordi, tradizioni, musica, ritmo, movimenti, storia, che rappresentano l’essenza più profonda di sé stessa. Giovane. Americana. Atleta. Afroamericana

A vederla muoversi su quel tappeto la prima cosa che salta agli occhi: è il suo sorriso. La seconda: la sua squadra a bordo campo che balla con lei. Non sembra una gara. Ma una festa in cui Nia sembra un’amica di Nola Darling e Mars in She’s gotta have it di Spike Lee. Una festa, dicevamo, una festa dedicata alle “Black excellence” che suonano una dietro l’altra in un mix che dura poco più di un minuto e trenta e che determina la vittoria della sua squadra. 

In quel minuto e trenta secondi c’è tutto l’orgoglio di una 22enne afroamericana che celebra la ginnastica, la città che rappresenta Los Angeles e la sua storia. La storia di una comunità di 39 milioni di cittadini afroamericani. La più grande minoranza etnica degli States che a maggio 2020 dopo il brutale omicidio di George Floyd ha riempito strade e piazze. 

A pensarci bene non è la prima volta che lo sport si fa portavoce dei diritti civili.  Nessuno può dimenticare i pugni chiusi di Tommie Smith e John Carlos, davanti alla bandiera a stelle e strisce sul podio della XIX edizione dei giochi olimpici in Messico nel 1968. Linguaggi diversi. Tempi distanti. Generazioni differenti. Stessa questione: l’identità. A ben guardare alla parola “afroamericano” si legge: “Americani di origine africana che condividono l’eredità storica della deportazione in schiavitù”. Eredità storica. Segregazione. Negazionismo. Accettazione forzata. Assimilazione. Un’eredità fatta di generazioni, lotte e prese di coscienza, di riscoperta della propria identità. 

Non posso essere pienamente te perché sono me e in me c’è tanto di te ma altrettanto molto di me. Un po’ quello che scriveva Abdelmalek Sayad per i franco – algerini del vecchio continente: “Vorrebbero che fossimo francesi, ma allo stesso tempo ci viene fatto capire che non riusciremo mai a raggiungerli. E’ questo che chiamano integrazione

Proprio per questo Nia Dennis porta in gara la sua musica, il suo ritmo e i movimenti che più la rappresentano. La musica che parla di lei e della sua famiglia. Quella musica nera che fin dall’inizio ha raccontato una storia diversa. Dal blues al soul. Dal funk all’hip- hop. Dalla Disco music alla House. Nia Dennis la sua identità di giovane afroamericana l’ha raccontata così. “La coreografia riflette sicuramente tutto ciò che sono oggi come donna. Ho dovuto incorporare molte parti della mia cultura“.

Tempi diversi, dicevamo, stessa questione. Anche Amanda Gorman ha 22 anni e come Nia Dennis è afroamericana. Qui nel vecchio continente l’abbiamo vista la prima volta alla cerimonia di insediamento del neo Presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Raggiante, avvolta da un cappotto giallo con folte treccine raccolte da una fascia rigida di raso rosso.  Anche lei come Nia Dennis a Capitol Hill ha portato tutta la sua essenza, un pezzo della sua storia e della sua identità: “The hills we climb”.

Perché spesso ciò che è così e basta non è sempre giustizia”. “Ci stiamo sforzando di forgiare un’unione con l’obiettivo di comporre un Paese fedele ad ogni cultura, colore, carattere e condizione umana. Sappiamo che per mettere il nostro futuro davanti a tutto dobbiamo prima mettere da parte le nostre differenze”. “Questa è la radura che ci è stata promessa. La collina che scaliamo. Perché essere americani è più di un orgoglio ereditato. E’ il passato in cui entriamo. E come lo ripariamo”.

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