L’inferno di Taranto ha accolto, in un girone avvolto dal fumo, la voce baritonale di Nick Cave per restituire alla vita, per una sola notte, i bambini strappati a quella vita dall’acciaio malato e dalla politica malavitosa, ascendendo al paradiso insieme a quell’angelo caduto capace di volare con un’ala sola.

La sua poetica decadente è un proiettile sospeso inesploso che si è raggomitolato ad un passo dal cuore. L’ultimo Cristo capace di predicare il coraggio del dolore. Nick Cave è sopravvissuto grazie all’ala spezzata che continua a battere, alla sua voce da corvo zoppo che si aggira in un cimitero monumentale che torna ad ogni notte, fra periferie e vecchi porti marci, con sembianze di ubriachi e straccioni o di gatti ciechi sotto i lampioni fulminati.

La tetralogia del dolore, dell’assenza, dello strappo dell’amore nella visione sofferta della vita Nick Cave ce l’ha donata in poco più di nove anni: Push the Sky Away, Skeleton Tree, Ghosteen e Carnage. Molti, come me, hanno scoperto Nick Cave con Henry’s Dream nel ’92 con canzoni come Loom of the land, fra sonorità folk e tinte morriconiane per una lirica-supplica sepolcrale fra campi dannati, ombre e ossessioni notturne scandite da campane sacre benedette dove ritrovare rifugio.

Nick Cave è stato una spalla dove piangere e su cui salire per non temere  il buio e la vita e sentirsi sicuro anche nei sentieri più solitari – una spalla per chi ha trovato il coraggio di camminare su strade sporche di sangue retto dalla promessa che Papa Won’t Leave You, Henry.

Ecco, per gente come noi il disco della catastrofe e della carneficina è stata la lamentazione per sfidare ogni supplizio immeritato di questa vita fragile puntando al cielo superando le meschinità, le privazioni, ogni terrore quotidiano miracolando il sudore in acqua-vite e il sangue in vino.

Nick Cave in Carnage ci offre l’occasione di purificarci, di guarire dal sangue infetto cucendo ogni cicatrice con le corde del violino sinistro di un Paganini tormentato nel perdono biblico di una Apocalisse che non distrugge ma ci riporta verso casacome annuncia nel gospel White Elephant – il regno dei cieli è vicino.

Questo smarrimento serve a rinnamorarsi della vita – Balcony Man – la luce di ogni mattino incredibile, danzando come Fred Astaire, abbandonandosi alla pazzia per non morire e sentire l’odore del sangue che ci avvolge, il sangue degli altri, che sanguinano più di noi.

Nick Cave lascia entrare nel suo corpo spettri e anime in pena che ci parlano attraverso il suo diaframma dissonante e spettrale. Il suo misticismo è una diabolica grazia di pietà e saggezza. Nick Cave ha conosciuto il dolore, prima della carneficina umana, ha perduto suo figlio, divorato dall’inferno di Dante.

Da Carnage facciamo un salto temporale al 2016 con Skeleton tree. Mentre scrivo gli occhi distillano commozione squarciando l’inchiostro sul foglio, sì, perché appartengo alla generazione che scrive ancora a penna sulle ginocchia. E queste sono lacrime di un padre per un figlio che manca.

Non c’è poesia, canzone, droga, pietanza, vino, alcool, carne o oro che possa reggere allo strappo di un figlio. Ho pudore anche di scriverne, non ho il diritto di entrare nel dolore di Nick Cave. Mio figlio è qui, anche se lontano, mente il suo bambino Arthur, quindici anni, si è perso in fondo ad un acido che ha spaccato la terra divorandolo come in Parnassus di Terry Gilliam.

Ascoltando I Need You si ha subito voglia di abbracciare il proprio figlio, tornare a baciargli la fronte mentre dorme, perché i figli quando crescono si possono baciare solo di notte, per pudore, per paura della tenerezza. Nick Cave ci fa quest’altro dono, trasforma il suo dolore in una poesia di cristallo, chiedendoci di averne cura e custodirla per i nostri figli.

Tutto Skeleton tree è una cura ad ogni nostro vuoto con l’invito a guardare negli occhi la morte, quella violenta. Nick Cave, quando ha portato dal vivo queste canzoni-litanie, ha cercato un Requiem collettivo, ha condiviso quel dolore, lasciando salire sul palco il pubblico, lasciando loro la possibilità di toccare ogni ferita, facendosi unica voce di Orfeo per tornare all’inferno e riprendersi il suo bambino.

Nick cerca Dio e l’autostrada per l’Altissimo è spesso pericolosa, disseminata di rupi e precipizi. Solo nel mezzo della tragedia avvengono i miracoli. Nick Cave ci ha insegnato a pregare, spalancando quella porta oscura del cielo che si può aprire solo con la forza rabbiosa della tristezza.

Ogni strumento rarefatto si inchina alla voce beniana e malinconica, che scaraventa ogni melodia contro un tremore feroce ed un sentimento nel corpo di un carme. Il lutto è cucito alle corde vocali, la lamentazione funebre è incenso sparso sull’Oceano tenuto in circolo da raffiche di vento che imprigiona la purezza, il candore, la bellezza di una madre nell’ambra, intrappolata e soffocata dall’assenza del suo bambino.

La pietà di Michelangelo dove il marmo è una canzone che toglie il respiro, il tentativo folle di allacciare le scarpe a quel figlio che continua a chiamarci da un mondo parallelo e che non vogliamo lasciare andar via

Distant Sky è una sinfonia lenta e dolce in cui Nick Cave affronta la consapevolezza dei limiti umani, il non poter sopravvivere alla divinità. Tuttavia una velata speranza si apre come un canto largo e seno di madre,

“possiamo partire per cieli lontani”.

Oltre gli occhi, oltre il visibile si può essere per sempre. Torniamo ancora indietro, all’inizio della tetralogia con Push The Sky Away del 2013. Nick Cave era ancora un padre felice. Ma una sorta di visione tragica aleggiava già intorno a quell’aura sacra e divinatoria chiamata musica.

“Ho una sensazione che non riesco a smuovere […] continua a spingere verso il cielo”.

Atmosfere gotiche disperate dall’odore di zolfo e incenso da sacrestia: per comprendere il presagio di questa canzone vi invito ad ascoltare la versione live di Melbourne con la Symphony Orchestra ed il coro di ragazzi e ragazze che ci trafigge il cuore e ci fa cadere a pezzi ogni certezza, lasciandoci divorare dall’amore e dalla pietà più spietatamente e maledettamente dolce e dannata.

Uno specchio d’acqua che falcia ogni sguardo. L’allucinazione della sepoltura, i gemiti e la paura dell’esistenziale spirito di Nick Cave. Un rituale sciamanico che tiene fra le dita i misteri di un rosario. Litania per archi e sintetizzatori diretti da una voce sotterranea con il talento di un crollo. Chiude la tetralogia Ghosteen del 2019.

Le canzoni di questo disco vanno ascoltate nella veste nuda ed essenziale del live all’Alexandra Palace. Nick Cave solo con il suo compagno d’ebano ed avorio. Il fantasma di Arthur non se n’è mai andato e Nick non vuole lasciarlo andar via. 

Waiting for you è l’ultima supplica, unghie nella terra, che non deve essere lieve ma deve ribellarsi a quella giovane anima rubata, caduta per una debolezza, la stessa fragilità che ha aiutato suo padre a sopravvivere alla solitudine e alle inquietudini.

“Il tuo corpo è un’ancora che non chiede di esser levata…Voglio solo continuare a renderti felice…Io sto solo aspettando te….sto aspettando il tuo ritorno”.

Ho incontrato Nick Cave qualche anno fa, in occasione del tour Dig,Lazarus, Dig. Ero in compagnia di mio figlio Christian Nirvana, all’ora era un adolescente. Fu la sua iniziazione, l’educazione sentimentale. Mi presentarono come poeta.

Gli regalai una poesia che avevo scritto per John Berryman:

Ho comprato un volo per Minneapolis / Ho trovato un bigliettino sporco di sangue/ cucito nel petto in una giacca nel fondo del Mississippi / ho sognato Chagall / che mi dipingeva il contorno degli occhi di rosso / Voglio essere il fantasma John Berryman”.

Gliela dissi in italiano. Ne comprese la musicalità delle parole. Lui ricambiò con una birra e dei versi di Flannery O’Connor che diceva qualcosa come

“vuoi essere un poeta? Rivolgiti a Dio, scriverà per te”

portandomi alla mente Fisiognomica di Battiato.

A distanza di anni ho riscritto quella poesia aggiungendo un verso dedicato proprio a Nick Cave e pubblicata nel canzoniere La disperazione di Kurt Cobain, scritto per mio figlio. 

Il canzoniere di Nick Cave è un Vangelo apocrifo, ogni canzone è una lettura giornaliera per reggere il peso della vita. La letizia di scavare in profondità e ritrovare una disperata voglia di vita, anche nelle debolezze, nelle cadute, nelle sconfitte. La prova del dolore non è ancora finita per Nick Cave, un altro figlio, Jethro, gli è stato strappato dal cuore. Ma questa volta Orfeo guarderà negli occhi Proserpina e glielo darà indietro. Il suo canto commuoverà l’Ade. Arthur e Jethro e tutti i figli di Taranto sono tornati in una notte sacra e per sempre.

Dall’antologia La disperazione di Kurt Cobain – Cosimo Damiano Damato ( Compagnia Editoriale Aliberti) 2022

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