“Nuovo Olimpo” di Özpetek: un bel film che può essere disturbante
Il film di Fernan Özpetek potrebbe essere emotivamente disturbante se è vero che conserviamo ricordi di amori lontani non definitivamente compiuti.
Il film di Fernan Özpetek potrebbe essere emotivamente disturbante se è vero che conserviamo ricordi di amori lontani non definitivamente compiuti.
Nonostante i clichè, soprattutto estetici, di una certa iconografia gay, in cui il pregiudizio della bellezza impera indisturbato tra curve, muscoli e scorci, nonostante, alla fine dei conti, Almodovar, PARDON!, Özpetek, racconti sempre la stessa storia usando sempre lo stesso linguaggio, nonostante, insomma, più che davanti a un nuovo lungometraggio ci troviamo davanti a un format, ebbene, ancora una volta chapeau!
Il film è capace di trascinarci in una tensione narrativa straordinaria, facendoci empatizzare con quella grande storia d’amore che sarebbe potuta essere, catapultandoci nel nostro passato come per sortilegio, e lasciandoci in bocca una coazione all’introspezione, a un’indagine intima del sè e del proprio, di passato.
In questo senso, possiamo dire che Nuovo Olimpo potrebbe essere emotivamente disturbante se è vero, come credo, che molti di noi, se non tutti e tutte, conserviamo ricordi di amori lontani non definitivamente compiuti, e dunque ancora potenzialmente vivi. Sarebbe divertente sapere quanti, dopo questo film, sono tornati in segreto a sbirciare le proprie vecchie rubriche alla ricerca di quel lui o di quella lei che, secondo l’ambiguo archivio della sensualità, avrebbe potuto renderci davvero felici.
Sì, perchè la moderata (o mediocre) stabilità del nostro oggi (parlo di chi abbia compiuto almeno il quarto o quinto decennio dell’esistenza e si ritrovi coccolato da una relazione stabile), difficilmente può battere la febbrile felicità di alcuni attimi rimasti impigliati nel passato che, grazie appunto all’ambiguo archivio, ci permette quell’idealizzazione da cui un po’ ci piace farci perseguitare.
Vorrei soffermarmi sul grande equivoco amoroso che ci fa confondere il delirio tipico dell’innamoramento, quello che afferisce all’estasi e alla manìa, con il calore dell’amore che, per sua stessa natura, non può donarci lo stesso senso di eterno di cui è capace la passione iniziale ma, al contrario, ci porta nel regno finito dell’amicizia, della complicità, della alleanza, della tenerezza, e che chiede il dono, invece del suo opposto: il rifornimento.
Questa differenza tra la fame narcisistica tipica dell’innamoramento e i rassicuranti limiti dell’amore è in fondo anche in questo film, in cui i rispettivi matrimoni raccontano quelle storie di vita che la travolgente attrazione di 72 ore tra i due protagonisti non è in grado di narrare, proprio per la sua natura idealizzante.
Perdoniamo dunque a questo film, e a Özpetek, l’ennesima citazione di Magnani e Mina, l’ennesima chiave malinconica, gli ennesimi personaggi femminili iconici di una madrità onnivora, l’ennesima libido nelle inquadrature simmetriche, l’ennesima tensione all’impossibile perchè, voi che entrate, uscirete turbati, proprio come si deve, quando si fa un film che ha qualcosa da dire.
Complimenti al regista turco anche per il coming out nella sceneggiatura, in parte autobiografica, e a Damiano Gavino e Andrea Di Luigi, i due protagonisti, attori da poco sulla scena italiana e credo, pronti a durare anche grazie alla magistrale guida che li ha aiutati a fiorire in maniera straordinaria.