Giungo a Stromboli il 20 giugno 2020 più o meno come tutti gli anni. Quest’anno però l’isola è diversa. Il vulcano è stato chiuso alle visite – che rappresentano la principale fonte di turismo dell’isola – il 3 luglio dello scorso anno a causa della prima delle due grandi eruzioni parossistiche del duemiladiciannove e poi il Covid ha fatto il resto.
Stromboli dopo secoli di microeconomia legata alla terra, alla coltivazione e alla pesca, si è trovata tra la fine degli anni ’90 ed i primi 20 anni di questo terzo millennio a vivere un boom economico legato al turismo e specificamente al turismo del vulcano, con la nascita di tante guide vulcanologiche locali nate per portare le persone in cima a vedere questo spettacolo straordinario, con una grandissima presenza di turisti – tanti francesi e tedeschi – entusiasti di questa meraviglia, e, per i meno avventurosi, il mare di scoglio, tra i più belli delle nostre coste, in un tessuto che ancora ha una sua verità legata alla tradizione dell’isola.
La presenza viva del vulcano, lo spirito della sua gente e l’incontro con turisti amanti della natura hanno generato una delle forme spontanee più armoniche di sviluppo economico che io conosca – un poco minacciata solo in luglio e agosto dall’arrivo massiccio dei barconi di turisti mordi-e-fuggi – ed un fiorire di iniziative culturali come la Festa di Teatro Ecologico che da anni porta l’arte nel suo elemento naturale.
Già nel 2003 e nel 2007 il vulcano aveva tenuto lontano per un po’ il turismo a seguito di eruzioni esplosive più o meno come quelle del 2019, ma ne ha fatto al contempo uno dei vulcani più studiati del mondo e la Protezione Civile ha introdotto progressive regolamentazioni per l’accesso ai crateri al fine di minimizzare l’inevitabile rischio associato alla esposizione così prossima ad un vulcano esplosivo attivo.
A Stromboli, un fazzoletto scosceso di terra a forma di cono alto 924 metri che emerge ripido dal mare, non puoi scordarti della presenza del vulcano e del mare. Qui la natura è manifestamente preponderante nel gestire i tempi e i modi della vita ed è inevitabile che la popolazione locale abbia acquisito un tasso di resilienza molto maggiore di quello della maggior parte delle comunità che vivono in condizioni più agiate e più ricche ma inevitabilmente più fragili di fronte alle crisi.
Così, nei giorni di fine giugno 2020, trovo una Stromboli che sembra di marzo, con pochissima gente in giro, con quasi tutti i negozi, bar e ristoranti ancora chiusi che piano piano riaprono in attesa della ripresa della stagione. Gli amici strombolani da una parte aspettano i turisti, dall’altra li temono per via del Covid che qui non è arrivato. Come tutti gli italiani si dividono tra complottisti e governisti. Ma tutti sorridono e sembrano sereni. Sono rifioriti gli orti e le vigne. C’è chi sperimenta tecniche antiche per ottimizzare l’irrigazione visto che qui l’acqua è solo di raccolta piovana o quella che arriva con la nave cisterna al molo di Ficogrande.
Stromboli dovrebbe essere proposta come uno dei Globally Important Agricoltural Heritage Systems (GIAHS) promossi dalla FAO, sistemi “di incredibile bellezza estetica che combinano biodiversità agricola, ecosistemi resilienti e una tradizione culturale di valore”.
Ma più ancora, quei sorrisi sono la vera lezione. La preoccupazione per il futuro è la stessa per tutti, ma resilienza vuol dire non averne paura, conoscere il valore della solidarietà e della frugalità, sapere lottare, come in un orto a cui affidare le proprie energie e creatività. Questo è ciò che possiamo imparare dal vulcano e dalla sua gente.