Nella prima e nella seconda puntata dedicate a questo argomento abbiamo affrontato vari aspetti della comunicazione ecologica. Questo terzo pezzo sarà dedicato alle dinamiche di gruppo: ogni realtà associativa, gruppo di lavoro, famiglia ma anche la collettività intera andrebbe considerata come una complessa unità-totalità con un valore decisamente maggiore di una mera sommatoria delle parti prese singolarmente. Lo sviluppo tecnologico ha invece portato l’essere umano ad assumere progressivamente le caratteristiche di un ingranaggio che esegue il proprio compito senza esercitare un minimo di creatività, senso critico, autonomia. Mentre una relazione, più o meno armoniosa, tra singole componenti genera un surplus e uno stato di salute diffuso, l’esecuzione meccanica delle proprie mansioni si riflette sul singolo individuo che a sua volta reagisce in distonia innescando un processo di degenerazione degli schemi socialmente riconosciuti.

Caro Prof. Pino De Sario, siccome questo disagio si riflette molto sul nostro lessico con espressioni che denotano una sorta di aggressività latente, frutto anche di una conflittualità interiore, sapresti dirci come la comunicazione ecologica può essere utile per uscire da questa spirale negativa che mina le nostre relazioni?
Ogni nostro comportamento è errato immaginarlo frutto di pensieri, sì in parte è così, ma è il precipitato anche di funzioni corporee, in cui al centro possiamo mettere il sistema nervoso autonomo. Quindi rabbia e gentilezza sono dati da un mix di natura e cultura, natura per i circuiti innati nervosi e cultura, per le nostre abitudini e tratti personali appresi.

Per usare bene le parole occorre lavorare a monte su alcuni fronti essenziali: la calma, (qui ci aiuta il respiro consapevole); il senso di sé in relazione, tramite un registro assertivo, che espone il proprio pensiero senza squalificare quello dell’altro; l’ascolto attivo non solo quando le cose vanno bene, ma anche quando sono critiche, oppositive. Dobbiamo quindi considerare il nostro conflitto personale con noi stessi fra ragione ed emozioni, come del resto la stessa relazione con l’altro subisce lo stesso scarto, ragione-emozione, capire-sentire. Un bello spunto può essere dato dall’apprezzamento, un metodo che di solito ci manca, perché consideriamo in modo disattento quello che abbiamo, ci apprezziamo troppo poco e al contempo poniamo poca attenzione agli aspetti costruttivi anche dell’altro.

Il valore della critica costruttiva

Un altro strumento utile è la critica costruttiva, perché è importante criticare senza distruggere, ovvero criticare il comportamento della persona e non la persona stessa; la critica va quindi contestualizzata, mirata a una precisa mancanza, evitando l’uso di avverbi generici come «sempre» e «mai». Chi usa la comunicazione ecologica ha la possibilità di provare a modulare la propria apertura mentale e linguistica. A volte questo può portare anche alla decisione di lasciare il campo, perché non c’è spazio per proseguire o non è opportuno farlo. Comunicare in modo efficace significa, infatti, non solo aprirsi all’altro, ma anche sapersi proteggere. La positività non va idealizzata, si rischia poi nei fatti l’incoerenza”.

E’ vero, ci sono momenti in cui la relazione di gruppo sembra implodere e la voglia di lasciare il campo è forte nonostante tutti i tentativi di apertura mentale massima. Però migliorando lo status interiore e imparando quindi a curare tutti gli aspetti della relazione, tutto dovrebbe sistemarsi prima a poi, no?
Certo, anche se non esiste un piano di perfezione, né una canonicità assoluta e rigorosa. La negatività è fisiologica, non si può eliminare ma anzi può diventare una risorsa, materia feconda, manifestazione più vitale rispetto alla positività, che a volte appiattisce gli scambi. Ed è necessario lavorare sul ruolo della negatività, perché investire sulle risorse della convivenza significa lavorare sulla consapevolezza che il conflitto esiste e non si può eliminare, ma solo gestire, anche proteggendosi come dicevo prima. Quello che conta è imparare a integrare e unire, consapevoli delle forze che ci dividono e senza la pretesa di raggiungere un livello di perfezione impossibile che ci condurrebbe verso una rigidità o un caos eccessivi, a loro volta problematici. Sapere che non è possibile raggiungere la perfezione è anche in un certo senso liberatorio: ci permette di concentrarci sulle nostre possibilità reali e quindi di evolvere, diventare migliori nella relazione accogliendoci e abbracciandoci almeno un po’. Bisogna mettere sempre in conto che in una relazione ci sono anche fattori che non vanno, incomprensioni fisiologiche che non possono essere negate. A livello pratico, invece, è necessario tenere conto della prospettiva dell’altro, in un’alternanza fra Io e Tu, e considerare entrambi i punti di vista dando lo stesso valore a noi e al nostro interlocutore. Solitamente invece siamo concentrati troppo su noi stessi o troppo sull’altro.

L’importanza di sentirsi “gruppo”

Per questo motivo è fondamentale sentirsi parte di un gruppo. Lo scopo di una collettività dovrebbe scaturire da un’espressione sincera e da un’adesione disinteressata ai valori comuni; dovrebbe nutrirsi della responsabilità personale nel processo di realizzazione di piccoli e grandi obiettivi che costituiscono le tappe di un percorso ad ostacoli, che sono molteplici. Può essere che l’insidia di fondo che genera delle divergenze sia la mancanza di consapevolezza del percorso intrapreso perché semplicemente desideriamo vivere con altre persone per non sentirci soli?
E’ inevitabile che in ogni gruppo, formale od informale, si manifestino delle divergenze e delle discussioni più o meno animate. Per questo è importante, almeno nelle fasi iniziali, la presenza di un facilitatore, “terzo” alle dinamiche interne, potenzialmente o apertamente conflittuali, capace di guidare il gruppo all’interno della loro trasformazione verso atteggiamenti costruttivi. In qualunque contesto ci troviamo, portiamo tutti nel mondo le nostre disfunzionalità, dissonanze e criticità, ognuno con propri atteggiamenti specifici; dobbiamo fare i conti con automatismi profondi, un po’ schematici e inadeguati, troppo umani… e tutti li conosciamo.”

In merito a questo suggerirei di leggere il tuo Manuale ANTI-negatività, anche per approfondire altri aspetti che richiederebbero ulteriori puntate!

Volendo trarre delle conclusioni: aderire ad un progetto e a qualsiasi lavoro di gruppo secondo i canoni della comunicazione ecologica significa intraprendere un percorso di crescita personale e collettiva, in simbiosi mutualistica con sé, con gli altri e col mondo. Come parte di un tutto, in senso olistico. Migliorare la capacità di ascolto ci permette di riconoscere che ogni membro porta con sé un bagaglio di vissuto che è inevitabilmente impregnato di buone intenzioni, di una carica empatica ma anche della stessa aggressività generata da situazioni conflittuali che ci portiamo addosso. Siamo tutti più o meno consapevoli delle nostre paure, dei timori provocati da un senso di insicurezza e dell’origine della nostra incertezza.

L’adesione ad una comunità, ad un movimento politico o ad un’associazione di volontariato rappresentano un’occasione per liberarsi delle paure, soprattutto della paura della libertà, perché presuppone la condivisione di un obiettivo che può riguardare il gruppo stesso, tutti gli esseri umani, tutte le specie viventi ed estendersi anche alle generazioni future. Più questo obiettivo riguarda tutti, più è facile identificarsi negli intenti del progetto e dare il giusto contributo con la migliore energia possibile. Io almeno la vedo così, e spero d’ora in poi di dare il buon esempio come questo caloroso abbraccio a te e un grande apprezzamento per tutti questi preziosi consigli che i lettori di Rewriters sapranno sicuramente mettere a frutto!

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