Riscoprire il senso dell’umano: Antropocene e tutti gli altri “ceneismi”
Antropocene è dominio e prevaricazione o consapevolezza e speranza? Riscopriamo l'umano autentico per scongiurare disastri irreversibili.
Antropocene è dominio e prevaricazione o consapevolezza e speranza? Riscopriamo l'umano autentico per scongiurare disastri irreversibili.
(English translation below)
Le parole che accompagnano la scena finale del film Antropocene: l’epoca umana (2018) tentano di sollevarci dall’angoscia indotta dalle immagini sul disastro planetario antropogenico e di alleviare il nostro rammarico impotente di esseri umani, complici dello stato in cui versa la Terra, lasciandoci intravedere una via per il nostro riscatto: “La Terra ha quattro miliardi e mezzo di anni; possiamo leggere la sua storia nelle rocce. La civiltà moderna si è sviluppata soltanto negli ultimi 10.000 anni, ma la nostra specie è riuscita a spingere i sistemi del pianeta oltre i loro limiti naturali. Siamo tutti coinvolti, alcuni più profondamente di altri. Ma la tenacia e l’ottimismo che ci hanno fatto progredire possono aiutarci a far tornare questi sistemi a un livello che garantisca la sicurezza della vita sulla Terra. Riconoscere e rivalutare i segni della nostra dominazione è l’inizio del cambiamento”.
L’Antropocene, da un lato dominio e prevaricazione, dall’altro consapevolezza e speranza.
Sono circa venti anni che si discute di Antropocene. Il termine fu introdotto da Eugene Stoermer negli anni ’80 ad indicare l’epoca recente dominata dall’essere umano, ma assunse rilevanza planetaria agli inizi del XXI secolo grazie a Paul Crutzen, recentemente scomparso, nobel per la chimica per i suoi studi sulla deplezione dell’ozono.
Da allora la comunità scientifica, così come quella filosofica e delle scienze sociali, sono state animate da accesi dibattiti intorno a questa parola e al concetto implicito. In ambito scientifico, i geoscienziati stanno ancora cercando di capire se sia possibile e corretto dal punto di vista stratigrafico denominare Antropocene una nuova epoca geologica successiva all’Olocene, a sua volta iniziato 11.700 anni fa al termine dell’ultimo periodo glaciale. Per far questo occorrerebbe individuare un marcatore stratigrafico, chiaramente antropogenico, all’interno dei depositi geologici più recenti, inequivocabilmente associato ad una transizione geo-ambientale, persistente nel tempo geologico e rilevabile in vari punti della Terra, di estensione planetaria e temporalmente coevo, che possa rappresentare un preciso limite cronostratigrafico nella scala del tempo profondo della geologia, un passaggio tra momenti diversi della storia del pianeta.
Ci sono numerose idee a riguardo, come ho illustrato nel libro Geoetica recentemente pubblicato da Donzelli Editore, ma la questione è intricata e densa di significati non solo scientifici. Filosofi, sociologi, economisti, storici ne parlano nelle loro analisi, sottolineando l’iniquità, le disuguaglianze, le logiche di potere e di dominio, il lato più oscuro del capitalismo che l’idea corrente di Antropocene porta con sé. Del resto, al di là della sua possibile certificazione scientifica, l’Antropocene è l’epoca in cui la storia del pianeta e quella umana si intrecciano, ed è di fatto connotato da Homo sapiens, incontrastato dominatore della natura, modificatore incessante della sua nicchia ecologica secondo le sue necessità e il suo desiderio di soddisfare gli istinti di primato sui suoi simili. L’Antropocene, dunque, come paradigma della rigida applicazione dell’antropocentrismo nella sua accezione più negativa, in cui l’essere umano si auto-assolve dall’accusa di aver causato la distruzione degli altri esseri viventi, della biosfera, dell’intero sistema Terra.
A queste considerazioni sono solitamente collegate una serie di critiche e attacchi, talvolta dai toni moralistici, alla civiltà occidentale, responsabile di tutto ciò che esiste di negativo nella storia passata e presente, compresa l’attuale crisi ecologica.
A partire da questa visione, del resto condivisibile e ricca di spunti utili per avviare i cambiamenti indispensabili ad invertire la rotta, sono derivate negli anni una serie di sottocategorie dell’Antropocene, progressivamente utilizzate per connotare i tratti principali del nostro tempo, un sottobosco di termini dal suffisso comune: “-cene” (dal greco kainós, nuovo, recente). Ecco alcune di queste proposte: Termocene, Anglocene, Capitalocene, Tanatocene, Fagocene, Fronocene, Agnotocene, Polemocene, Sinforocene, Plasticocene, Pandemiocene, Tecnocene, , Econocene, Homogenocene, Chthulucene, Entropocene, persino Trumpocene…. e di sicuro ne sto dimenticando altri. Tutti questi termini in definitiva dissezionano analiticamente l’Antropocene per poi andare a ricomporlo in una molecola complessa di ceneismi.
Ma dietro la dissertazione scientifico-filosofica che sostiene le ragioni dell’una o dell’altra proposta, definizione, sottocategorizzazione, si intravede un possibile rischio: la ricchissima esperienza umana potrebbe essere semplicisticamente considerata qualcosa da rinnegare in toto, e l’Antropocene ridotto all’insieme dei prodotti di un essere umano inquinatore, prevaricatore, cinico, massacratore, in una battaglia iconoclasta contro l’antropocentrismo, per cui la specie umana sarebbe il vero virus del pianeta. E in questo processo di condanna, potrebbe quasi svanire quanto c’è di meglio dell’essere umano: la sua creatività, la sua curiosità, la sua capacità di essere solidale ed empatico, di costruire legami di amore e di amicizia. Così come rischierebbero di essere minimizzati i traguardi e le espressioni migliori dell’impegno intellettuale e artigiano dell’essere umano, come l’arte, la scienza, la tecnica, il diritto, la filosofia, la democrazia. Ridurre a questo l’Antropocene non potrebbe che generare ansia, frustrazione, schizofrenia, perdita di ogni speranza per il futuro.
L’essere umano si costruisce e si determina nella sua individualità, ma è la sua sfera di relazioni che dà senso alla sua esistenza: le interazioni sociali e naturali sono espressioni della sua natura al di là del proprio corpo. Questa fitta rete di relazioni è l’umano, senza soluzione di continuità nel suo essere.
Riflettere su questo può farci sperare che l’Antropocene, nella sua accezione più negativa, prima ancora di iniziare possa già considerarsi terminato, passato, dissolto alla luce di una nuova consapevolezza di reciproca appartenenza e di impegno alla responsabilità. E può accelerare quella crisi di coscienza scaturita dall’Antropocene in grado di traghettarci prima possibile verso il Koinocene, che l’antropologo Adriano Favole definisce “… una nuova era in cui l’essere umano saprà riconoscere la ‘somiglianza’, la ‘comunanza’, la ‘partecipazione’, le ‘relazioni’ … tra tutti gli esseri viventi e non viventi che abitano il pianeta”.
La Terra, dunque, come spazio di relazioni, luogo in cui il concetto di koiné, quale lingua comune e unificante, si specifica nel suo significato allargato di civiltà universale, di comunanza, di dimensione sociale condivisa da tutti i popoli che costituiscono il complesso mosaico dell’umanità, di partecipazione senza dicotomie e contrapposizioni tra esseri umani e non umani, animati e inanimati, tra natura e spirito.
In questa continua e affannosa corsa per capire cosa siamo, individuandoci spesso in modo schizofrenico al di fuori di noi stessi, inconsapevolmente ci neghiamo, definendo la nostra complessità con parole insoddisfacenti. E mentre indirizziamo le nostre analisi sulla frustrazione, ritenendola causa e non effetto di una scissione in noi stessi e con la natura che è in noi, colpevolmente dimentichiamo proprio l’essere umano nella sua autenticità.
Forse per scongiurare eventi planetari irreversibili non occorre cambiare l’umano, quello vero, autentico, sapiente, ma solo imparare a riscoprirlo ed ascoltarlo.
ENGLISH VERSION
The words accompanying the final scene of the movie “Antropocene: the Human Epoch” (2018) try to relieve us of the anguish induced by the images on the anthropogenic planetary disaster and to alleviate our powerless regret of human beings, accomplices of the state in which the Earth is, allowing us to glimpse a way for our redemption: “The Earth is four and a half billion years old; we can read her story in the rocks. Modern civilization has only developed in the last 10,000 years, but our species has managed to push the planet’s systems beyond their natural limits. We are all involved, some more deeply than others. But the tenacity and optimism that have made us progress can help us return these systems to a level that ensures the safety of life on Earth. Recognizing and re-evaluating the signs of our domination is the beginning of change“.
The Anthropocene, on the one hand domination and abuse, on the other awareness and hope.
The Anthropocene has been discussed for about twenty years. The term was introduced by Eugene Stoermer in the eighties to indicate the recent epoch dominated by the human being, but it assumed global significance at the beginning of the 21st century thanks to Paul Crutzen, who has recently deceased, Nobel Prize for Chemistry for his studies on the ozone depletion.
Since then, the scientific community, as well as the philosophical and the social sciences ones, have been animated by heated debates around this word and the implied concept. In the scientific field, geoscientists are still trying to understand whether it is possible and correct from a stratigraphic point of view to call Anthropocene a new geological epoch after the Holocene, which in turn began 11,700 years ago at the end of the last glacial period. To do this, it would be necessary to identify a stratigraphic marker, clearly anthropogenic, within the most recent geological deposits, unequivocally associated with a geo-environmental transition, persistent in geological time and detectable in various points of the Earth, with planetary extension and temporally coeval, so as to be able to represent a precise chronostratigraphic limit in the deep time scale of geology, a transition between different moments in the history of the planet.
There are numerous ideas about it, as I have illustrated in the book “Geoetica“, recently published by Donzelli Editore, but the question is intricate and full of meanings, not only scientific. Philosophers, sociologists, economists, historians talk about it in their analyzes, emphasizing inequalities, the logic of power and domination, the darker side of capitalism that the current idea of Anthropocene brings with it. Moreover, beyond its possible scientific certification, the Anthropocene is the epoch in which the history of the planet and human history are intertwined, and is in fact characterized by “Homo sapiens”, unopposed ruler of nature, incessant modifier of his/her ecological niche according to needs and the desire to satisfy the instincts of primacy over his/her fellowmen. The Anthropocene, therefore, as a paradigm of the rigid application of anthropocentrism in its most negative meaning, in which the human being acquits him/herself of the charge of having caused the destruction of other living beings, the biosphere, the entire Earth system.
These considerations are usually linked to a series of criticisms and attacks, sometimes with moralistic tones, on Western civilization, responsible for all that is negative in past and present history, including the current “ecological crisis“.
Starting from this vision, after all agreeable and full of useful ideas to initiate the essential changes to reverse the course, over the years a series of subcategories of the Anthropocene have been derived, progressively used to connote the main features of our time, an undergrowth of terms with the common suffix “-cene” (from the Greek kainós, which means “new, recent”). Here are some of these proposals: Thermocene, Anglocene, Capitalocene, Thanatocene, Phagocene, Fronocene, Agnotocene, Polemocene, Sinforocene, Plasticocene, Pandemiocene, Tecnocene, Econocene, Homogenocene, Chthulucene, Entropocene, even Trumpocene …. and I’m certainly forgetting others. All these terms ultimately dissect the Anthropocene analytically and then recompose it into a complex molecule of “ceneisms”.
However, behind the scientific-philosophical dissertation that supports the reasons for one or the other proposal, definition, sub-categorization, there is a possible risk: the very rich human experience could be simplistically considered something to be totally denied, and the Anthropocene could be reduced to the set of products of a polluting, abusive, cynical and slaughtering human being, in an iconoclastic battle against anthropocentrism, for which the human species would be the true virus of the planet. And in this condemnation process, the best of the human beings could almost vanish: their creativity, curiosity, ability to be supportive and empathetic, to build bonds of love and friendship. In the same way, the achievements and the best expressions of the intellectual and technical commitment of the human being, such as art, science, technology, law, philosophy, democracy. Reducing the Anthropocene to this could only generate anxiety, frustration, schizophrenia, the loss of all hope for the future.
Human beings build and determine themselves in their individuality, but it is their sphere of relationships that gives meaning to their existence: social and natural interactions are expressions of their nature beyond their own body. This dense network of relationships constitutes the human, without interruption in its being.
Reflecting on this can make us hope that the Anthropocene, in its most negative sense, even before it begins, can already be considered finished, past, dissolved in the light of a new awareness of mutual belonging and commitment to responsibility. Moreover, it can accelerate that crisis of conscience arising from the Anthropocene able to ferry us as soon as possible towards the Koinocene, which the anthropologist Adriano Favole defines “… a new era in which the human being will be able to recognize similarity, community, participation, relationships … between all living and non-living beings who inhabit the planet“.
The Earth, therefore, as a space of relationships, a place where the concept of koiné, as a common and unifying language, is specified in its expanded meaning of universal civilization, of community, of a social dimension shared by all the peoples that constitute the complex mosaic of humanity, of participation without dichotomies and contrasts between human and non-human beings, animate and inanimate, between nature and spirit.
In this continuous and frantic race to understand what we are, often identifying ourselves in a schizophrenic way outside of ourselves, we unconsciously deny ourselves, defining our complexity with unsatisfactory words. And while we focus our analyzes on frustration, considering it the cause and not the effect of a split in ourselves and from our nature, we guiltily forget the human being in his/her authenticity.
Perhaps in order to avert irreversible planetary events, it is not necessary to change the human being, the true, authentic, wise one, but only to learn to rediscover and listen to him/her.