The Gilded Age: l’età dorata di Fellowes, il period drama anche in Usa
Il tema delle differenze di classe che tanto piace ai britannici viene riscritto in versione statunitense con The Gilded Age, la serie creata da Julian Fellowes.
Il tema delle differenze di classe che tanto piace ai britannici viene riscritto in versione statunitense con The Gilded Age, la serie creata da Julian Fellowes.
Qualcuno lamenta che Julias Fellowes, attraversando l’oceano, abbia perso smalto: cioè che il creatore di Downton Abbey non sia riuscito a rifare il miracolo con The Gilded Age (prodotto da HBO, Sky serie o Now Tv, 9 puntate la prima stagione), ambientato nella New York di fine Ottocento. A me, invece, questa serie è piaciuta assai.
The Gilded Age riporta negli Stati Uniti il tema delle differenze di classe (padroni/servitori) che tanto piace ai britannici e anche qui: il su e giù per le scale di cui Fellowes ha fatto un brand (non solo Downton Abbey ma anche Gosford Park, il film di Robert Altman del 2001 di cui scrisse la sceneggiatura originale, un giallo inizio Novecento spaccato fra i padroni al piano nobile e i servitori nei seminterrati).
Nella New York del 1886, però, la spaccatura sociale è doppia: oltre al baratro fra chi paga e chi viene stipendiato, c’è la lotta dei nuovi ricchi per entrare nella società bene.
Il tema è stato ampiamente esplorato dai romanzi di Edith Wharton, e segue la traccia della storia vera: i Vanderbilt, i Rockefeller e i Morgan che oggi guardiamo come i fondatori dell’impero made in Usa, a fine Ottocento erano appunto considerati come sfacciati arrivisti dall’old money, il vecchio denaro, quello delle famiglie arrivate con i pellegrini del Mayflower – o almeno che si vantavano di essere tali.
Il titolo, L’età dorata, si riferisce appunto a quel periodo della storia Usa in cui le fortune capitaliste industriali crebbero a dismisura – arricchendo però solo una piccola fetta di cittadini, che diventarono anche grandi mecenati e grandi collezionisti.
Così nella serie, i ricchissimi Russell, magnati delle ferrovie, esemplari del successo moderno, costruiscono una enorme sfarzosa casa sulla Quinta Strada affacciata su Central Park East – tuttora la zona più ricca di Manhattan.
E’ soprattutto Bertha, consumata dall’ambizione, che l’ha voluta per sgomitare fino ad arrivare al cuore della città bene, e per farci entrare anche il figlio – educato nei migliori college – e la figlia, destinata a un matrimonio sontuoso.
Il padre, abile affarista, sarebbe interessato soprattutto alla sua prodigiosa carriera… ma la qualità che li redime è l’amore sincero che li unisce. Bertha Russell è la fantastica Carrie Coon, una sorta di Lady Macbeth per intensità.
Morgan Spector è il satanico George Russell, impietoso salvo che di fronte alla figlia (Taissa Farmiga). La penetrazione degli arrivisti è molto facilitata dalle nuove generazioni, che guardano avanti e non hanno remore, pragmaticamente ammettendo il valore dei soldi (per chi ricorda Via col Vento, il vecchio Sud odiava il Nord arrivista; insomma c’è sempre qualcuno più in basso da disprezzare).
E’ una donna a lottare per la scalata sociale, sono le donne a sbarrarle il passo ben più dei mariti; l’ordine dei salotti interessa fino a un certo punto agli uomini e comunque non è una battaglia per cui si sporcherebbero le mani.
Vediamo dunque una sfilata di Gorgoni altezzose guidate dalla signora Caroline Astor (personaggio storico e regina dell’età dell’oro newyorchese). La meno arrendevole sembra Agnes van Rhijn, la cui casa sorge proprio di fronte alla nuova magione dei Russell.
Aiuta che questa vedova di ferro sia interpretata da Christine Baranski (in uno sterminato curriculum cito solo The Good Wife e The Good Fight, ma anche la straordinaria madre di Leonard in The Big Bang Theory), affiancata dalla più dolce sorella zitella Ada Brook – una stupefacente Cynthia Nixon. La Miranda di Sex and the City in costume fine Ottocento sarebbe già abbastanza di per sé per guardare la serie. Con loro la giovane nipote Marian Brook (Louisa Jacobson), fresca fresca dalla provincia dopo aver perso il padre.
A queste due realtà corrispondono due set di servitori, a loro volta in contrasto; il maggiordomo di casa Brook è inglese, come vuole tradizione (e quindi usa diverse disposizioni di piatti e bicchieri), mentre i Russell hanno uno statunitense e uno chef francese, che peraltro benché bravissimo si rivelerà poi in qualche modo un truffatore.
Inutile dire che i costumi e le ambientazioni sono sfarzosi, le ricostruzioni meticolose (che fatica muoversi con quegli abiti articolati, direi architettonici, le gonne strette con l’aggetto dietro e lo strascico, le sete, i velluti, i broccati, i cappelli).
Gran parte delle puntate sono dirette da Michael Engler, che ha con Fellowes una collaudata esperienza in Downton Abbey (qui un’intervista in inglese in cui Fellowes parla di The Gilded Age).
E’ vero che le prime scene soprattutto – i servitori formicolanti nelle cucine e nei corridoi seminterrati di casa Russell – evocano un potente senso di déjà vu: in Gosford Park, in Downton Abbey, quante cuoche e quanti giovani valletti e quante cameriere abbiamo conosciuto? La mente vacilla al ricordo.
Non manca il subplot un po’ più logoro della coppia gay nascosta, e la formidabile signora van Rhjin ricorda parecchio per spirito sarcastico la straordinaria contessa madre Maggie Smith in Downton Abbey.
Però qui – in omaggio proprio a Edith Wharton e anche a Henry James – c’è uno studio delle sfumature locali tutt’altro che banale. La questione razziale: non solo la giovane nera Peggy Scott, amica di Marian, ma la famiglia di lei che abita a Brooklyn in una bella casa borghese, con una madre che suona il pianoforte, e la povera Marian che va a trovarli portando in dono, a sua eterna vergogna, un paio di vecchi stivali.
Una società nera che corre sotto traccia, coi i suoi giornali e le sue aspirazioni e la necessità di scontrarsi continuamente con il razzismo più o meno evidente – anche le famiglie bene si dividono equamente fra libertarie e scandalizzate.
Le figure variegate di arrivisti o libertini che si aggirano in questa società dove conta l’apparire più che l’essere (e le difficoltà delle giovani donne che li devono scoprire ed evitare, un po’ come in un videogame).
E poi, in fondo, il sogno americano esiste. Lo dice il giovane valletto di casa Brook, Jack, alla cameriera Bridget, emigrata dall’Irlanda, mentre ammirano la fine di un ballo:
“Forse prima o poi ci andremo anche noi: siamo in America!”.
Sono una coppia tenerissima e speriamo che siano in primo piano nella prossima stagione: HBO ha confermato già in febbraio che sarà prodotta.