Spillover vuol dire salto di specie. Banalmente, è quando un patogeno di un’altra specie si evolve e infetta l’essere umano. Un virus ad alto tasso di mutazione è probabile che salti con più facilità da una specie a un’altra.

La FAO ha dedicato un piccolo vademecum alla prevenzione dello spillover. Ci sono dati e considerazioni interessanti: il 70% delle infezioni oggi sono zoonosi, cioè procurate da un salto di specie. Sono tantine. Le ricerche, continua il vademecum (che traduco) “indicano che focolai di malattie di origine animale sono in aumento, principalmente a causa della degradazione degli habitat e dell’intensificazione di produzione e commercio di bestiame. E ancora: “Cambiamenti temporanei o permanenti del paesaggio derivanti da frammentazione e degradazione di un ecosistema sono le maggiori spinte che causano l’emergere o il ri-emergere di malattie come malaria, febbre dengue, Ebola e morbo di Lyme… i mutamenti nel paesaggio e la perdita di biodiversità sono probabilmente la causa dei più grandi cambiamenti nell’ecologia dei patogeni. La possibilità di malattie zoonotiche secondo la FAO è aumentata a causa di: “cambiamento climatico, eventi climatici estremi” per non parlare del: “degrado ambientale, la riconversione di terre, la frammentazione della fauna a causa di insediamenti umani, l’intensificazione dell’agricoltura, lo sviluppo delle infrastrutture, la rete di strade relative all’industria estrattiva”. Tutto ciò per la FAO favorisce lo spillover. Per la verità tutte queste ragioni sono anche la causa per cui io, nel mio piccolo e con il mio minuscolo bagaglio di letture scientifiche, una pandemia prima o poi me l’aspettavo.

Bene, chiediamoci a questo punto, con lo spillover come trend in crescita, se ci interessa o no sapere se il covid è uscito da un laboratorio di Wuhan. Ci interessa, è chiaro. Tuttavia il fatto che gli Stati Uniti – che con la Cina hanno un conto aperto – soffino di nuovo sul fuoco del sospetto non vuol dire che il salto di specie vada sottovalutato in questa e in altre epidemie. Le indagini sono per ora solo indagini, che lo spillover sia in aumento è un dato di fatto. Ancora una volta si fatica meno a immaginare come colpevoli esseri umani definiti con nomi e cognomi (in questo caso i ricercatori di Wuhan) piuttosto che una reazione a catena – sempre antropogenica – ma decisamente più complessa, più ampia e con più passaggi. Nel corso della pandemia questa tendenza a semplificare, questo bisogno di dare un volto e un nome ai colpevoli la si è vista spesso: nel dialogo pubblico a un certo punto la colpa dei disastri è andata interamente a politica e sanità. Eppure il virus predilige certe zone ed è più virulento dove l’intervento antropico ha deteriorato la qualità dell’aria. La Lombardia così come certe zone dell’Inghilterra sono state un mix di servizio sanitario insufficiente e aria molto inquinata. E anche questa, mi rendo conto, è una semplificazione.

Oggi le cose che avvengono su ogni livello della società e del mondo spesso non hanno una spiegazione semplice. Capisco che dire è colpa sua e puntare il dito dia sicurezza. Forse però andrebbe badato di più alle opinioni di scienziati e ricercatori – che a volte mi sembrano i grandi non-ascoltati. Le cause profonde e complesse invece mi sembrano le meno affrontate.

Sono sicura di aver sentito per la prima volta la storia del virus cattivo uscito da un laboratorio nei primi anni Novanta. Ero una bambina, era appena morto un caro amico di mio padre di AIDS, Freddie Mercury sarebbe seguito a breve, e ho il netto ricordo di mia mamma che scuote la testa dubbiosa all’idea sentita da qualcuno dell’AIDS patogeno sovietico che avrebbe saltato il muro alla fine degli anni Sessanta.

In realtà negli anni Cinquanta un grande autore di fantascienza – John Wyndham – ha affrontato il tema della catastrofe creata in laboratorio. Il libro si chiama Il giorno dei trifidi e non resisto alla tentazione di linkare la vecchia edizione Urania. Zitta zitta, dai tempi in cui la dirigeva Giorgio Monicelli, Urania ha passato in Italia molti classici profondi della fantascienza che toccano temi per noi interessanti. Nel libro, i trifidi sono piante enormi, mobili e carnivore. Vengono coltivate in occidente perché il loro olio si vende bene, nonostante siano pericolose. Il protagonista, il biologo Bill Masen, sospetta che siano uscite accidentalmente da un laboratorio U.R.S.S. Chiaramente a un certo punto terrorizzeranno gli umani. Il libro è una grande avventura: uno dei temi principali, tipico del post-apocalittico (lo dicevamo anche di Anna), ha a che fare con il modo in cui la nostra specie affronterà la catastrofe. Nel miglior stile new wave sci-fi britannica, il finale non è accomodante.

Citato come ispiratore da grandi nomi della letteratura speculativa come Margaret Atwood o David Mitchell, Wyndham ebbe con Il giorno dei trifidi il suo primo successo commerciale. Non è difficile spiegarsi perché in piena Guerra Fredda una storia di piante cattive probabilmente antropogeniche toccò qualche nervo scoperto dell’immaginario collettivo. La tensione con l’Unione Sovietica e il mondo diviso in blocchi aumentava le ansie da catastrofe nucleare. Hiroshima, Nagasaki, Auschwitz e tutti questi toponimi-simbolo di atrocità recenti avevano aperto crisi interne al concetto di humanitas. Il consumismo intanto si stava assestando come ideologia dominante a ovest: l’olio di trifide che vende bene e giustifica la coltivazione di piante assolutamente nocive è una bellissima immagine dell’occidente che, per interessi, porta avanti pratiche a lungo andare dannosissime. Accade oggi su scala ampia con il greenwashing delle imprese di estrazione idrocarburi, su piccola scala nel 1951 erano già noti casi limite come quello delle radium girls: operaie che dipingevano i numeri fluorescenti degli orologi al radio in due fabbriche statunitensi.

Ma più di ogni altra cosa, la Seconda Guerra Mondiale aveva lasciato l’opinione pubblica britannica disorientata: molte certezze, come quella del grande Impero Britannico, si stavano sgretolando. I trifidi creati in laboratorio creano un mondo scompigliato e difficile da riassemblare come quello del post-Seconda Guerra Mondiale o del post-covid. Ancora, è un rappresentante di un modello economico differente – un nemico – a scatenare il putiferio. La bomba atomica era sfuggita di mano agli statunitensi: e se fosse un nemico a non controllare una scoperta che mette in pericolo l’umanità? La hard-boiled sci-fi statunitense traboccava di fiducia nella scienza in funzione della conquista di altri mondi. Qua invece sono di più i dubbi: l’umano interviene sul non-umano con l’illusione di controllarlo e spesso non ci riesce. Triffid, negli anni a venire, sono stati Chernobyl, Fukushima, il cambiamento climatico.

Tornando a oggi, la narrazione del virus creato in laboratorio a Wuhan ha così successo da risultare perfino più credibile dello spillover (ricordiamo che la prima è un’ipotesi, il trend in alzata della seconda è una certezza misurata). Oggi il fatto che l’essere umano spesso non controlla le cose le persone lo vedono, lo sentono, lo percepiscono. Ci si fissa più sul fatto che i nostri trifidi potrebbero, forse, essere usciti da un laboratorio e molto meno sul fatto che le industrie li coltivano per vendere il loro olio e così facendo spianano la strada alla catastrofe. Sembra quasi che le emozioni di indignazione e azione politica che dovrebbero andare verso il cambiamento climatico e i suoi effetti (emozioni troppo grandi, paralizzanti o assenti perché il problema non è percepito) si trasferiscano su un avvenimento più contenuto che la mente umana riesce a gestire meglio. Chissà cosa avrebbe da dire Sigmund Freud.

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