Il titolo della mia rubrica riecheggia il concetto secondo cui ciascuno ha la sua croce. Ma oggi mi prendo una pausa per esaminare una croce ben più grande, che grava sulle spalle di noi italiani tutti, e nemmeno da ieri bensì dalla bellezza di 32 primavere (leggansi trentadue) in procinto di diventare trentatré: la crescita zero.

Dati ISTAT alla mano, l’ultimo anno conclusosi con gli indicatori economici in aumento rispetto al precedente è stato il 1991 sul 1990.

Per rendere l’idea. Nel 1991 ero fresco venticinquenne, non avevo un solo capello bianco e dovevo ancora sperimentare l’ebbrezza di pesare più di 72 kg. Il fax era l’ultima frontiera della comunicazione, impazzavano gli walkman, Internet non era più che un’ipotesi illustrata due anni prima da un fisico inglese noto solo agli esperti. Mani pulite sovveniva a malapena il rimprovero di una mamma che becca il piccolino nella marmellata.

Gli anni ’90, le aspettative, strategie per tornare a crescere

La mia era la prima generazione di laureati masterizzati erasmizzati. Le aspettative erano enormi, a maggior ragione in luce di un’esperienza che aveva visto i nostri genitori, dotati a stento di licenza media, prodursi nel boom economico.

Chiunque avesse profetizzato lo scenario poi concretizzatosi sarebbe stato bollato di pazzia grave. Al punto che oggi, a danno fatto, nessuno ne parla, come se nascondere la realtà dietro a una patina d’imbarazzo ne attenuasse la forza sconvolgente.

Ho affrontato spesso la questione in pubblico. Tuttavia l’occasione che più m’ha fatto riflettere m’ha visto non protagonista bensì spettatore. Risale a poco tempo fa, era un convegno in Franciacorta, presso il locale Golf Club, rigorosamente a inviti. Sul palco un parterre de rois: Luca Libra, avvocato di Giorgia Meloni, attuale Presidente del Consiglio, qui in veste di moderatore; la vicepresidente della Regione Piemonte Elena Chiorino; l’europarlamentare Carlo Fidanza. Si parlava appunto di strategie per tornare a crescere, e a farmi riflettere è stata una frase della vicepresidente Chiorino a proposito della fuga dei cervelli, altro tema annoso strettamente connesso con la stasi economica:

«Noi italiani i cervelli li sappiamo formare, altrimenti non sarebbero attrattivi per l’estero».

Il concetto mi ha colpito, perché è vero. Come diceva Luigi Berlinguer, già Ministro della Pubblica Istruzione, la nostra scuola è ottima. Le riforme che dagli anni Sessanta l’hanno mantenuta al passo coi tempi, per quanto a volte controverse non ne hanno intaccato il valore metodologico. Chi esce da una delle nostre università possiede un background e una specializzazione d’eccellenza, lo so per aver fatto spesso il confronto con ex studenti stranieri.

Vi scandalizzate dunque se vi dico che il problema sta precisamente qui?

Non nel livello di preparazione, ovvio. E nemmeno nella quantità di diplomati e laureati. La scolarizzazione di massa è fra le principali conquiste nella storia umana, probabilmente la più grande se si considera da quali abissi di ignoranza ci ha salvati.

Il punto è la mancanza di “ponte” fra questa nuova scuola e il lavoro

Uno si diploma, magari col massimo dei voti. Poi si laurea, fa la magistrale, si sceglie un master di quelli prestigiosi, ai primi posti dei ranking. Studia una, due, tre lingue. Entra in azienda comprensibilmente con la bava alla bocca, onde raccogliere il tantissimo che ha seminato. E cosa trova? Ve lo dico io: trova la stessa struttura ipergerarchica concepita a fine Settecento per le orde di analfabeti che inauguravano l’era industriale.

Suggerirei a tutti la lettura delle Lezioni di Politica – vol 2: Scienza della Politica, del mio maestro Gianfranco Miglio, soprattutto nei capitoli sul rapporto fra capi e seguaci. Pare la descrizione puntuale della vita aziendale, trasformatasi molto per tempo in fatto politico, in cui i meccanismi di potere hanno la meglio su quelli tecnici. Accade ovunque sussistano gerarchie: c’è sempre qualcuno che prevale sugli altri e li schiaccia sulla scia di un intreccio ancestrale di narcisismi, una naturale doppia tensione da un lato al comando e dall’altro al quieto vivere (vulgo, lo stipendio sicuro, di cui noi italiani siamo maestri).

È qui, in questo meccanismo perverso, che il sistema s’è inceppato. Nessuno ne aveva considerato l’improponibilità in un’era di ambizioni. Un tempo il non laureato o il non diplomato era meno maldisposto verso le prepotenze, proprio a causa dei complessi d’inferiorità che nutriva verso chi aveva fatto liceo od università, e anzi poteva sentirsene motivato a superarli. Ma oggi… Oggi non esiste peggior crusher of possibilities che dover sbattere i tacchi davanti a chi ne sa meno di te.

Questa demotivazione feroce è la causa di tutto: paralisi, disimpegno, globalizzazione financo. Cito Fidanza dal convegno di cui sopra:

«Siamo rimasti a galla grazie ai tassi bassi, al gas russo, a una Cina concorrenziale in termini di costi. Ora tutto questo è finito: l’Unione Europea ci ha costretti a due anni di cura da cavallo, abbiamo chiuso i rubinetti con la Russia per le note ragioni geopolitiche, i dazi ci hanno costretto a ridimensionare anche la Cina».

Le istituzioni stanno dandosi una mossa e stavolta qualcosa potrebbe davvero cambiare. Ma occorre ci si metta anche il privato. Ci vuole un radicale cambiamento organizzativo nelle aziende e tra le aziende. Altrimenti, quale che sia la panacea, tra vent’anni ci ritroveremo semplicemente ad aver cambiato padrone. Ieri Putin e Xi Jinping. Domani chissà.

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