Conosco Liv Ferracchiani, in arte Liv, da tanti anni, da quando uno spettatore mi consigliò di andare a vedere un suo spettacolo. Seguii il consiglio e andai. Mi presentai alla fine dello spettacolo, un po’ imbarazzato e un po’ incuriosito, di quello che avevo visto e soprattutto di quell’autore/regista che già faceva capire che avrebbe portato un nuovo modo di scrivere il teatro.

Mi accolse con un mezzo sorriso, pure lui di imbarazzo o di timidezza, credo, non saprei, ma fu un bell’incontro. Da quella sera ci siamo visti una decina di volte e abbiamo parlato per poco più di una manciata di minuti, ma sempre, quando ci si incontra, è come se ci si conoscesse da sempre, non tanto perché ci seguiamo sui social, ma perché ogni volta è come se dovessimo dirci qualcosa che non ci diciamo mai. Quando sai che c’è Liv, in mezzo ad altra gente, prima o poi sentirai che ti sta guardando, come se volesse conoscerti da lontano, capire chi sei, in silenzio.

Liv è un attore, un drammaturgo, un regista, uno scrittore edito da Mursia… riesci a raccontarti, dicendo di te, senza raccontare di te? 
Quando lanci una pallina da tennis per il servizio è tutta una questione di equilibri. Non deve essere lanciata troppo in alto o troppo in basso, nemmeno troppo in avanti o troppo dietro. Quando lanci la pallina da tennis e alzi la testa per guardare la piccola sfera gialla e pelosa, quando stai per colpirla con la racchetta puoi avere come una vertigine e inciampare sulle tue stesse scarpe.

Per investire in teatro c’è bisogno di amore oppure più di coraggio? 
Per investire in teatro c’è bisogno di onestà. Credo che prima di questioni artistiche ed esistenziali esista una problematica economica. Non so dire se i soldi manchino veramente o se siano gestiti male, ma mettendosi in ascolto delle voci dei lavoratori dello spettacolo traspare sempre la sensazione che lavorare sia un’opportunità, una sorta di “piacere che ti fanno”. La situazione somiglia un po’ a quella di quando ti piaceva un giocattolo, non ce l’avevi perché costava troppo e il tuo vicino di casa più ricco ti ci lasciava giocare per qualche mezz’ora. Io mi ritengo fortunato, perché mi mantengo con il mio mestiere, ma l’impegno giornaliero di chi fa capo alla voce contrattuale “artista” non è mai realmente retribuito. Preparare uno spettacolo non è solo fare le prove, lo sappiamo, ci sono almeno uno o due anni di approfondimento a precedere, se non di più. Eppure questa non sembra essere la prassi messa a sistema, si finge che lo studio non sussista, non è pratica comune conteggiarlo. Non posso credere che le paghe siano basse perché, in fondo, chi lavora in teatro, non ha davvero bisogno di lavorare. Così come non posso credere che devo battermi per far sì che le paghe dei miei collaboratori siano eque rispetto al loro lavoro. La contrattazione oggi è, in media, un gioco al ribasso. Il punto non è nemmeno indicare un cattivo, che può essere riconosciuto nella figura produttore, perché il produttore è dentro un sistema che lo porta ad agire non per finalità artistiche, ma per rientrare in tabelle ministeriali di finanziamento. C’è, dunque, bisogno di onestà e che chi regola il FUS entri in contatto reale con la quotidianità e le prassi teatrali. Ma queste sono belle parole, inutili, che ci diciamo di nuovo adesso e ci ripeteremo uguali tra dieci, venti, trent’anni etc. Quest’estate ho volutamente seguito poco la polemica sulla decadenza del teatro contemporaneo. Mi chiedo però se l’esigenza dei lavoratori dello spettacolo di mantenersi e di fare contemporaneamente più lavori, artistici o meno, non sia la vera motivazione di questa decadenza. Dopo aver risolto questi problemi pratici, possiamo confrontarci tutti insieme sulla nostra visione artistica rispetto al teatro. 

Scrivere è una responsabilità?

Quando Liv scrive un testo quali responsabilità sente di avere? 
Prima di tutto sento la responsabilità di chiedere a me stesso se ho un motivo per mettermi a scrivere. Può succedere di non averne, è doloroso, ma bisognerebbe avere la forza e la possibilità, allora, di non scrivere. La seconda responsabilità che avverto sta nella domanda: ho, su un dato argomento, un punto di vista che si sposta dalla visione generale? Non perché io voglia essere fuori dal coro, ma perché penso che dare vita a testi che siano già fortemente radicati nel senso comune sia inutile. Lo scrittore crea nuovi mondi, sposta il punto di vista, offre al lettore o allo spettatore una nuova possibilità.

Liv in un momento del suo spettacolo, nuovi modi di scrivere il teatro

Cosa deve avere/cosa deve essere un artista, secondo te? 
Secondo me deve essere consapevole del suo ruolo di “tramite”. L’artista ha un ruolo prezioso e delicato: è un “mezzo”. È colei o colui che riesce ad intuire quale forma dare all’intuizione, un nuovo modo di scrivere il teatro.  

Quando è stata la prima volta che ti sei sentito di aver fallito in qualcosa?
Il fallimento dipende dai desideri. Puoi fallire agli occhi degli altri, ma essere in linea con ciò che volevi. Io ho fallito spesso per come si intende classicamente, ma sono stato tendenzialmente fedele a quello che desideravo. Andando a ritroso la prima volta che ho fallito è stata quando a tre anni ho accettato che all’asilo mi facessero danzare sulle note di Attenti al lupo di Lucio Dalla vestito da Cappuccetto Rosso. Era una cosa che non desideravo affatto, ma non ho saputo dire di no. Ho sofferto il disagio e la vergogna, primo compromesso accettato, primo fallimento. Certo, poi possiamo dire che sono un po’ melodrammatico, in fondo era solo una gonnellino di carta pesta, non era il caso di farne una tragedia.

Cosa credi sia necessario fare per far partecipare i/le giovani al teatro?
I giovani sono già interessati al teatro, ce ne sono molti. La domanda è: come intercettare quella fetta di giovani che non pensa affatto al teatro. Credo, ma forse sono naïf, che il compito spetti alla scuola: formare ragazze e ragazzi anche con il teatro, teorico e pratico. Molti operatori culturali si occupano di questo, fanno un lavoro fondamentale, forse dovrebbero avere più risorse e più riconoscimento. Sarebbe più importante sostenere economicamente questo settore che non la Scala di Milano, lo dico per dire, amo l’opera lirica.

La famiglia e le tradizioni secondo Liv

Quanto ti senti legato alle tue tradizioni (Umbria/famiglia)? In cosa possiamo trovare le tue origini (parlo della terra, le tradizioni) nella persona che sei oggi? 
Mi sento molto legato all’Umbria, credo che dia una tempra specifica. L’umorismo umbro è un po’ simile a quello British, solo più brutale, più spiccio. Sono anche molto legato alla mia famiglia, una famiglia che si potrebbe dire di umili natali, che mi ha trasmesso uno sguardo intelligente sul mondo e un forte senso dell’onestà. 

Liv Ferracchiani, nuovi modi di scrivere il teatro

Cosa abbiamo (fortunatamente) lasciato nel teatro del passato? 
Io credo che ci stiamo lasciando alle spalle, con qualche rigurgito, le gerarchie e le dittature teatrali, un nuovo modo di scrivere il teatro è possibile. 

Cosa abbiamo (purtroppo) perso del teatro del passato? 
Forse la consapevolezza che sia un luogo di confronto. 

Qual è un tuo sogno che non hai mai confessato e nessuno? 
Non credo di avere sogni inconfessabili, mi piace la realtà e agire dentro di essa. 

Cosa vorresti che pensasse il pubblico all’uscita di un tuo spettacolo?
Mi piacerebbe che pensasse che il teatro può essere fonte di piacere. 

In cosa crede Liv?
Nel Nulla. Non è pessimismo, è un nichilismo propositivo. Mi tiene costantemente in contatto con quello che siamo, nonché con la nostra provenienza e la nostra destinazione. Paradossalmente non mi deprime, anzi mi motiva a godere degli attimi e, allo stesso tempo, mi dà la misura delle cose.

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