Discorsi intorno all’inclusione: il libro “La formula dell’Unicità”
L’inclusione è un imperativo. Un imperativo di civiltà, di maturità, di umanità nel senso più elevato. E riguarda tutti.
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L’inclusione è un imperativo. Un imperativo di civiltà, di maturità, di umanità nel senso più elevato. E riguarda tutti.
Il mio debutto su Linkedin fu uno choc, altro che inclusione. In calce a una mia foto a figura intera, nella quale sfoggiavo un impeccabile tailleur nero con scarpe decolté a pois e nientemeno che collant velati (fatto più unico che raro), mi ritrovai due commenti difficili da dimenticare. Entrambi da utenti di sesso maschile.
Il primo si professava specialista in eterogeneità in azienda (sic!) e senza troppi giri di parole mi scrisse che facevo schifo. Ignoro come se la passi l’azienda che gli versa uno stipendio in cambio delle sue prestazioni in eterogeneità.
Il secondo era invece un buttafuori, sorta di energumeno vattene-prima-che-ti-prenda-a-calci, diceva di essere non binario, così aprendomi uno squarcio sulla possibilità che mi capisse un filino meglio dell’altro, e poi concludeva che agli ingressi di cui è responsabile sarei stato ammesso solo dietro presentazione di certificato medico di disabilità.
Vi giuro che è tutto vero alla lettera.
Che dire? In ambo i casi, soprattutto nel secondo, in cui compare un’evidente area irrisolta nel dichiarato non binarismo, mi sono scontrato con individui gravemente repressi. Aggiungo che non sono uno psichiatra, non pretendo di fare diagnosi. Ma il termine represso ci spalanca un orizzonte sterminato. Represso da cosa? O da chi?
Da esperienza di lungo corso, posso certificare che la causa della repressione siamo sempre soltanto noi stessi. Dicesi represso colui che non ha il coraggio di ammettere e darsi ciò che davvero desidera. Concorrono in quest’esito i pregiudizi sociali, sorta di limbo speculare per cui da un lato gli altri ci impongono atteggiamenti a noi non consoni, dall’altro noi modifichiamo le nostre preferenze nell’inconscia illusione di raggiungere un qualche grado di felicità adeguandoci alle altrui aspettative.
Si tratta in realtà di un circolo viziosissimo che, lungi dal darci felicità, ci propina esattamente il suo contrario. E lo fa endemicamente, in ogni aspetto dell’esistenza, laddove è chiaro come i desiderata non siano propri della sola sfera sessuale o del gender.
Per questo l’era inclusiva che stiamo vivendo riguarda tutti. Non solo gli omosessuali, non solo i transessuali, non solo le persone con disabilità. In ballo c’è moltissimo: sintetizzando, direi che c’è la tensione a una felicità indebitamente preclusa dalla cattiveria degli altri.
A titolo esemplificativo, c’è dunque l’anelito delle donne a essere pagate quanto gli uomini a parità di incarico e titolo di studio, c’è il diritto degli stranieri a non essere valutati per la loro provenienza o la loro cultura, ma ci sono anche cose di cui non si parla mai, per esempio ci sarebbe il diritto di non farsi mettere i piedi in testa da nessuno, di essere giudicati e stipendiati in base alle capacità e non alle simpatie, di accedere alle scuole calcio anche se non si è di famiglia abbiente e via dicendo all’infinito.
Parafraso De Gregori: l’inclusione siamo noi.
È questo l’insegnamento che traspare luminoso dal miglior libro a tema che io abbia mai letto: La formula dell’unicità – Un nuovo percorso verso l’inclusione, di Daniele Regolo (Mondadori 2024), Diversity & Inclusion Ambassador per Openjobmetis S.p.A., disabile uditivo sin dalla primissima infanzia, appartenente – per usare le parole di Alessandro Cannavò nella prefazione –
«a quella schiera (non esigua) di persone con una qualche disabilità che hanno trasformato la propria condizione in un punto di forza».
Lungi da me spoilerarvi l’itinerario concettuale – che ha oltretutto il merito di essere breve, appena 140 pagine – con cui Daniele illustra il cristallo dell’inclusione dai suoi numerosissimi punti di vista. Una cosa però vi anticipo, ed è la definizione di inclusione quale scritta a pagina 75: essere messi nelle condizioni di partecipare al gioco del mondo.
Poche parole che dicono tutto. Descrivono l’anelito, proprio di ciascuno di noi, a lasciare un’impronta, nelle cose importanti come nell’ordinario, perché la vita è soprattutto fatta di cose ordinarie, ed è in quelle che si gioca la partita. Quale partita? Quella contro la malafede e i risentimenti di chi decide di farci pagare le proprie infelicità (le proprie repressioni) scagliandocele addosso.
Stiamo vivendo un’epoca straordinaria, perché per la prima volta nella storia si registra la corale intenzione di abbattere l’homo homini lupus. Utopia? Già un altro ci aveva provato, Woodrow Wilson, il presidente USA che nel 1919 volle la Società delle Nazioni, nobile ma fallimentare tentativo di abrogare la guerra come mezzo per la risoluzione delle contese fra Stati. Lui era da solo in questo sogno, oggi siamo in tanti, e ci muoviamo a livello non soltanto politico bensì anche privato. Invochiamo le leggi a garanzia, ma è nelle nostre vite, individuali e in sinergia, che ci proviamo.
Abbiamo trovato la strada e iniziato a percorrerla. A volte sbarelliamo, esageriamo, così fornendo ai razzisti e ai nemici di questo progresso il pretesto per criticare e delegittimarci. Il libro di Daniele stigmatizza questi errori. Ma non deroga al principio inderogabile, ossia che l’inclusione è un imperativo. Un imperativo di civiltà, di maturità, di umanità nel senso più elevato.
Tornasse in vita, il Dante del fatti non foste manderebbe tanti di noi all’inferno forse, ma rispetto ai suoi contemporanei troverebbe materiale, ne sono certo, per qualche canto di paradiso in più.