(English translation below)
Abbiamo un Ministero per la Transizione Ecologica! Benissimo! Ma esattamente cosa vorrà dire transizione ecologica? Il nome a me piace. Parla di cambiamento. Addirittura l’avrei chiamato Ministero per la Conversione Ecologica… il MinConvEcol. Certo transizione è più pragmatico. Di transizione se ne parla da anni per la questione energetica, alla ricerca della ricetta che ci porti fuori dalle fonti fossili, verso quelle rinnovabili. Ed è un bene, perché abbiamo un bisogno disperato di ridurre fortemente e presto le emissioni di anidride carbonica per incidere positivamente sul cambiamento climatico.

Ma l’auspicabile transizione energetica non ha quasi alcuna implicazione circa il modello di sviluppo che richiede quelle energie. Diciamo che al momento la politica e la ricerca scientifica e tecnologica a livello mondiale sono fondamentalmente protese alla ricerca di fonti energetiche pulite che supportino la perpetuazione otto e novecentesca dell’ideologia della crescita infinita del Prodotto Interno Lordo, dell’accumulazione del Capitale nelle mani di pochissimi, di una redistribuzione del restante sufficiente a mantenere accettabile lo stato delle cose, di una periferica militarizzazione per controllare le fisiologiche intemperanze di minoranze in rivolta e, dulcis in fundo, attraverso le fonti rinnovabili e a bassa emissione di CO2, anche in un clima meno infuocato!

Correttivi non espliciti in termini di critica al modello di sviluppo, ma molto importanti dal punto di vista pragmatico, sono contenuti nei diciassette obiettivi dei Sustainable Development Goals dell’Agenda 2030 dell’ONU, un programma ambizioso non solo per ridurre la povertà ma per affrontare anche la questione ambientale e quella della giustizia sociale ed economica.

Ma è singolare come negli ultimi anni le voci più forti e le posizioni più chiare e libere che mi sia capitato di sentire a proposito del male profondo che si cela dietro il nostro modello di sviluppo, e che è alla base dell’attuale crisi climatica ed ecologica, non siano state di politici, economisti, scienziati, filosofi, ma siano state quelle di una adolescente, Greta Thunberg, e quelle di due leader religiosi: Daisaku Ikeda, buddista, e papa Francesco, cattolico. E parlano di conversione ecologica, qualcosa di molto più forte di una transizione, che implica una riforma profonda che non può essere delegata alla sola politica. Per cui, mentre saluto con sincera speranza il lavoro del MinTransEcol, mi vorrei soffermare su alcuni spunti che vengono dalla Proposta per l’Ambiente del 2012 di Daisaku Ikeda “Per una società globale sostenibile: ogni persona è protagonista del cambiamento” e dall’Enciclica Laudato Si’ di papa Francesco. E non c’è bisogno di praticare né il buddismo né il cattolicesimo per coglierne la portata.

Il primo spunto riguarda la comprensione della profonda interrelazione tra tutte le cose dell’universo. L’analisi conseguente è che la desertificazione dell’ambiente è la manifestazione della desertificazione dello spirito (usano davvero le stesse metafore!!!). Per entrambi, dunque, la priorità risiede nella ridiscussione e scelta dei valori fondativi del nostro vivere e convivere – una vera conversione – con la certezza che per lo stesso principio di interrelazione, questa trasformazione è possibile e con essa curare il nostro ambiente e il nostro futuro.

E ancora, per entrambi, non è né una questione solo individuale, anche se è da lì che deve partire il cambiamento, né una questione ideologica. Vengono delineate, all’interno delle rispettive tradizioni religiose ma con sorprendenti similitudini, le vie pratiche per raggiungere lo scopo. Ma delle tante cose che vengono indicate come percorso da questi leader religiosi, mi colpisce l’invito a creare delle reti, a unirsi nella condivisione e nella lotta, al di là delle distinzioni culturali o religiose. Un invito laico mi permetto di commentare. Ikeda usa nel suo saggio l’esempio della Premio Nobel Wangari Maathai (1940-2011), fondatrice del Green Belt Movement, come parabola che porta dalla sofferenza individuale, all’azione, al coinvolgimento, alla leadership e in fine alla vittoria.

Era il 1977 quando la dott.ssa Maathai, tornata nel suo paese natale, in Kenya, dopo anni di studio all’estero, lo trovò profondamente cambiato. Gli alberi erano stati tagliati per far posto a colture più estensive e produttive, ma il suolo iniziava a essere eroso dalle piogge e i venti non trovavano ostacoli. Anche il vecchio fico della sua casa era stato tagliato. Quel dolore non fu vano. Nacque la decisione di agire. Iniziò così l’avventura della piantumazione degli alberi, prima insieme a poche donne, poi ampliando il movimento, soprattutto alle giovani e ai giovani. Piantare alberi per cambiare, per vedere il mondo offeso cambiare. Ad oggi sono stati piantati 51 milioni di alberi.

Coinvolgere e fare insieme, ritrovare il senso del potercela fare (empowerment dicono gli anglosassoni), diventare leader non di parole ma di fatti concreti, fuori dall’ideologia, radicati nella realtà ma con il cuore verso il futuro e nell’abbraccio a tutto il mondo. Agire localmente, pensare globalmente. Se il valore principale condiviso, come ci indicano con il loro esempio le due campionesse e i due campioni che ho nominato in questo breve testo, sarà il desiderio di costruire una società che abbia al centro la dignità della vita di ogni persona, delle generazioni future e della biosfera, allora avremo fatto la nostra conversione ecologica. A quel punto l’equità nella gestione delle risorse, nella distribuzione della ricchezza materiale e immateriale, la riduzione dei consumi superflui e della richiesta energetica, l’aumento del tempo dedicato alle cose belle, l’equilibrio tra tutte le componenti della natura, la sostenibilità delle nostre azioni non saranno obiettivi da perseguire ma la naturale coseguenza di una visione condivisa.

Ovviamente tra qui e là c’è un tempo. Quanto, dipende da quanto vogliamo raccogliere gli inviti di Ikeda e di Francesco, che esorto tutte e tutti a leggere con attenzione. Perché tutto dipende da quante Wangari Maathai e quante Greta Thunberg decidono oggi di mettersi in cammino.

ENGLISH VERSION

Acting locally, thinking globally: the invitation to ecological conversion comes from three different but in tune figures

We have a Ministry for Ecological Transition, the MET! Excellent! But what exactly does ecological transition mean? I like it. Feels like a change. I would have even loved to call it the Ministry for Ecological Conversion … the MEC. Sure, transition is more pragmatic. Transition is a term discussed for years around the energy issue, in search of the recipe that will take us out of fossil fuels towards renewable ones. And that’s good, because we desperately need to cut carbon emissions sharply and soon, to positively impact on climate change. But the desirable energy transition has almost no implications for the model of development that requires those energies. Which means that at the moment global politics and scientific and technological research are basically aimed at the search for clean energy sources that support the perpetuation of the ideology of the infinite growth of the Gross Domestic Product, of the accumulation of Capital in the hands of very few, of a sufficient redistribution of the remainder to keep the current state of things acceptable, of a peripheral militarization to control the physiological riots of minorities and, last but not least, through renewable sources and low CO2 emissions, in a cooler world!

Corrections that are not explicit criticism of this development model, but very important from a pragmatic point of view, are contained in the seventeen objectives of the Sustainable Development Goals of the UN Agenda 2030, an ambitious program not only to reduce poverty but to address also the environmental crisis and social and economic justice.

But it is strange how in recent years the loudest voices and the clearest and most free positions that I have ever heard/read about the profound evil that lies behind our development model and that is at the root of the current climate and ecological crisis, were not of politicians, economists, scientists, philosophers, but that of a young girl, Greta Thunberg, and those of two religious leaders: Daisaku Ikeda, a Buddhist, and Pope Francis, a Catholic. And they speak of ecological conversion, something much stronger than a transition, which implies a profound reform that cannot be delegated to politics alone. So, while I greet with sincere hope the work of MET, I would like to dwell on some ideas that come from the 2012 Environment Proposal by Daisaku Ikeda “For a sustainable global society: every person is the protagonist of change” and the EncyclicalLaudato Si‘” by Pope Francis. And there is no need to practice either Buddhism or Catholicism to grasp their significance.

The first point concerns the understanding of the profound interconnection between all things in the universe. The consequent analysis is that the desertification of the environment is the manifestation of the desertification of the spirit (they really use the same metaphors !!!). For both, therefore, the priority lies in the re-discussion and choice of the founding values ​​of our life and coexistence – a true conversion – with the certainty that for the very same principle of interrelation, this transformation is possible making it possible to take care of our environment and our future.

And again, for both, it is neither a merely individual question, even if that is where the change must begin, nor an ideological question. The practical ways to reach the goal are outlined within the respective religious traditions, but with surprising similarities. Of the many things that are indicated as paths by these religious leaders, I am struck by the invitation to create networks, to join in sharing and fighting, beyond cultural or religious distinctions. A lay invitation. Ikeda uses in his essay the example of Nobel laureate Wangari Maathai (1940-2011), founder of the Green Belt Movement (http://www.greenbeltmovement.org/), as a parable that leads from individual suffering, to action, to involvement, to leadership and ultimately to victory.

It was 1977 when Dr. Maathai, returned to her hometown in Kenya, after years of studying abroad, founding it profoundly changed. The trees had been cut to make way for more extensive and productive crops, but the soil was starting to be eroded by the rains and the winds found no obstacles. The old fig tree in her house had also been cut down. That pain was not in vain. The decision to act was born. Thus began the adventure of planting trees, first with a few women, then expanding the movement, especially to young people. Planting trees to change, to see the wounded world change. To date, 51 million trees have been planted.

Involving others and doing together, rediscovering empowerment, becoming leaders not of empty words but of concrete facts, out of ideology, rooted in reality but with the heart aimed at the future and in the embrace of all world. Act locally, think globally. If the main shared value, as Greta, Wangari, Daisaku and Francesco show us, will be the desire to build a society that has at its center the dignity of the life of each person, of future generations and of the biosphere, then we will have made our ecological conversion. At that point, equity in the management of resources, in the distribution of material and immaterial wealth, the reduction of superfluous consumption and energy demand, the increase in time dedicated to beautiful things, the balance between all the components of nature, sustainability of our actions will not be objectives to be pursued but the natural consequence of a shared vision.

Obviously, there is a time between here and there. How much depends on how much we want to collect the invitations from Ikeda and Francesco, whom I invite everyone to read carefully. How many Wangari Maathai and how many Greta Thunberg decide to stend up today.

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