Agostino Arrivabene a Bologna con “La linea verticale”, quando la pittura è la voce della parola “cadavere”
Fino al 9 Marzo 2025, A Bologna negli spazi della Raccolta Lercaro, una selezione di 22 opere di Agostino Arrivabene
Fino al 9 Marzo 2025, A Bologna negli spazi della Raccolta Lercaro, una selezione di 22 opere di Agostino Arrivabene
Nuova personale di Agostino Arrivabene a Bologna a cura di Giovanni Gardini, negli spazi della Raccolta Lercaro, in collaborazione con Primo Marella Gallery di Milano. L’esposizione, visitabile fino al 9 Marzo 2025, propone una selezione di 22 opere, tra dipinti e disegni, nella maggior parte inediti, dedicata al corpo, alla terra, ai gesti dell’amore nel prudente distacco dal male del mondo, e alle espressioni di rapporti di forza e inciampi che si frappongono al vivere nelle relazioni.
Quasi l’intera produzione di A. Arrivabene è rivolta al desiderio di purezza, una scelta approfondita nel corso della sua storia pittorica da uno sguardo attento all’atteggiamento da tenere per giungere alla salvezza. Se osserviamo l’opera intitolata La linea verticale II, eseguita con la tecnica della macchia di Hermann Rorschach (1884-1922) sarà inevitabile l’attrazione verso l’imponente colonna di luce a forma di mandorla che si percepisce emergere, diffondersi e mantenersi stabile per rigenerazione. L’atmosfera di quel dipinto, creata dal determinante rapporto di contrapposizione tra luce e tenebra, mi offre l’opportunità di ricordare Robert Fludd (Milgate House, 1574 – Londra, Inghilterra, 8 Settembre 1637) filosofo, medico, alchimista, astrologo, legato alla tradizione ermetico-cabalistica del Rinascimento diffusasi da Marsilio Ficino, Pico della Mirandola e Paracelso.
Tra questi eminenti studiosi Giovanni Pico dei conti della Mirandola e della Concordia, noto come Pico della Mirandola (Mirandola, Modena, 24 Febbraio 1463 – Firenze, 17 Novembre 1494) umanista e filosofo, l’esponente più conosciuto della dinastia dei Pico, signori di Mirandola, scrisse nel 1486 Oratio de hominis dignitate (Discorso sulla dignità dell’uomo), un’orazione sulla potenza dell’intelletto con cui l’essere umano si pone al centro dell’universo come Dio plasmatore e creatore, ritenuta il “Manifesto” del Rinascimento italiano.
Lo storico dell’arte austriaco Fritz Saxl (Vienna, Austria, 8 Gennaio 1890 – Dulwich, Londra, Inghilterra, 22 Marzo 1948) fu il primo ad avanzare un paragone tra l’opera di Pico e l’Uomo vitruviano di Leonardo di ser Piero da Vinci (Anchiano, Vinci, Firenze, 15 Aprile 1452 – Amboise, Francia, 2 Maggio 1519), corrispondenza esposta in una conferenza tenuta in tedesco ad Amburgo tra il 1927/1928 presso la Religionwissenschaftliche Gesellschaft e tradotta in Macrocosmo e microcosmo nelle illustrazioni medievali, in F. Saxl, La fede negli astri. Dall’antichità al Rinascimento, a cura di Salvatore Settis. Nel testo, attraversando luoghi e culture diversi tra loro, le figure degli dei e delle costellazioni vengono ripensate, o addirittura stravolte, restando tuttavia riconoscibili e in grado di costituire per la cultura occidentale, un sensibile e ricchissimo deposito di memoria storica.
Fludd si appassionò ai saperi occulti utilizzandoli anche nell’attività di medico. Nelle sue opere fuse nel contesto della nuova dottrina ermetica dei Rosa-Croce, le varie correnti dell’esoterismo cristiano, della cabala, del neoplatonismo e della magia naturale coltivata dai filosofi rinascimentali. La cosmologia rosacrociana di Fludd è incentrata sulla neoplatonica anima del mondo, assimilata alla divina Sophia e a Cristo, su cui si basa il percorso di salvezza dell’umanità.
Nel Medicina cattolica, seu mysticum artis medicandi sacrarium, pubblicato in due volumi nel 1629 a Francoforte sul Meno in Germania per C. Rötel per W. Fitzner, incluse quattro trattati di medicina in cui evoca il doppio ruolo del Sole: vitale e centrale nell’universo, soffermandosi a lungo sul parallelo tra la stella solare e il cuore umano. Da anatomista qualificato, sostenne che il movimento del sangue nel corpo umano imitasse quello del macrocosmo ed espose le proprie teorie mistiche sulla circolazione sanguigna nel trattato Anatomiae amphitheatrum.
Nella tela La linea verticale II la figura maschile nuda, posta a destra della colonna di luce, asse portante del dipinto e del corpo umano, emerge dallo sfondo tenebroso. Il capo dell’uomo si flette con eleganza ed è accolto in parte all’interno della luminosa forma irradiante che fa risplendere le carni bianche. Armonica e sinuosa, la vita umana sembra estratta in quell’istante dalla profondità del buio cupo e profondo dove, se l’occhio indugia, s’intravvede soltanto qualche sagoma. La pittura è magia che crea dal nulla, genera corpi e luce dalla materia, dona la vita insufflando vigore quasi volesse affermare quanto debba essere credibile il Fiat lux dove tutto è permeato dalla luce e dal suo senso, da quella luminosità calda e rivelatrice dell’amore di Dio, contrapposta al freddo oscuro che configge nel non senso e si contrappone al calore.
Sono molte le opere di fronte alle quali è impossibile non rimanere suggestionati. Arrivabene dissemina suggestioni con rara sapienza, suscita brividi e dipinge visioni con cui cattura il pensiero di chi guarda per la presenza di elementi misteriosi. Lungo il suo percorso artistico il Maestro ha offerto, e continua ad offrire le espressioni di una delle strade dirette al perfezionamento interiore dipingendo misteri con il mistero dell’arte propria. Molto di ciò che accade nelle opere rinascimentali trova una continuità contemporanea nei suoi spazi pittorici densi di simboli, allegorie, rimandi pagani e mistici, in contesti naturali dove la realtà si mostra più vera del vero e dov’è continuo il tentativo di rappresentare lo spirito d’iniziativa dell’umanità e della sua innata predisposizione a sfidare le forze divine.
L’indicazione data agli apostoli di agire «prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Matteo 10,16) non potendo essere azione passiva ma attiva, ha presupposto un lavoro mentale e fisico dove le mani fu necessario si sporcassero e, a volte, anche i toni si alzassero per uscire dal terreno confortevole e dare voce ai dubbi e al desiderio di sapere. La testimonianza di A. Arrivabene, suo malgrado, affonda le radici nella rottura definitiva di un legame necessario, vissuta soprattutto attraverso gli occhi, inevitabilmente penetrata nel cuore, e causa della frantumazione di una storia umana divenuta di limiti, inimmaginabili se non vissuti personalmente, e di immense responsabilità date ad altri per permettere a una giovane vita di crescere seppur nel reiterato tentativo quotidiano di spostare lo sguardo.
Le opere esposte nelle sale della Raccolta Lercaro, appartengono e si saldano al percorso di ricostruzione del cammino verso la “cittadinanza celeste”. La serie dei lavori prosegue la ricerca in funzione della liberazione dalla sensazione di smarrimento e vulnerabilità, per continuare a tradurre le riflessioni sull’amore delle relazioni che diano senso alla vita, giustifichino e circoscrivano le cadute, e aprano alle successive rinascite. Affascina la misura geometrica introdotta dal titolo per determinare l’estensione di un corpo, quella dimensione infinita da leggere nel contesto dell’osservazione sincera della limitatezza propria e altrui, plasmata da un’educazione di affetto e cura reciproca, necessaria per arginare i pericoli a cui è sempre esposta l’architettura umana.
La verticale presuppone la precisa direzione della linea da un punto di partenza, l’accettazione della personale condizione di fragilità e la necessità di liberarsi dalla forza con cui si reagisce alla pressione del mondo, per acquisire una forza più grande. Così fece Giovanni di Pietro di Bernardone: Francesco (Assisi, 1181/1182 – Assisi, 3 Ottobre 1126) che scelse di spogliarsi di ogni bene materiale per condurre una vita ascetica ma vivace, riferibile ad un consapevole senso di appartenenza a una famiglia spirituale.
Nel contesto dei racconti dipinti, d’immediatezza straordinaria, si svelano memorie di
sincera religiosità; e non si tratta di opere conformate per essere incluse in una categoria determinata, seppur d’eccellenza pittorica, ma di dichiarazioni dell’incontro personale con il Divino, interpretato con l’aiuto dello studio affinché non ne sia espressione superficiale. La narrazione di episodi tratti liberamente dalla storia del cristianesimo, non hanno la funzione di forzare ad abbracciarlo ma lo scopo di rinnovare, agli occhi dei contemporanei, l’espressione travolgente del rapporto più intimo e diretto dell’umanità con quella religione e le tradizioni derivate dal complesso delle sacre scritture. Nessun linguaggio è in grado di fornire risposte universali, per questo è necessario stimolare la ricerca a continuare ad indagare, e farlo con uno sguardo prudente che mantenga la sospensione sul mistero.
E’ bene, inoltre, essere consapevoli che lo spazio d’indagine sul mistero fondamentale della vita cristiana sia molto grande, e che affrontare le rivelazioni può aiutare ad avvicinarsi al Divino. L’arte della pittura è una delle grandi leve capaci di muovere la storia umana, una delle possibili modalità per permettere e facilitare la crescita interiore e l’opportunità di liberare la propria individualità sulla strada dove poter esprimere tutti gli aspetti ritenuti fondamentali alla vita. Non si tratta di un esercizio illusorio, ma di una disciplina dell’ascolto nel luogo in cui si dispone la possibilità dell’incontro.
Stigmata è un’opera del 2024. L’antica storia, a cui si riferisce il Maestro, narra che durante il mese di Settembre del 1224, Francesco d’Assisi si fosse ritirato sul monte della Verna, nell’Appennino toscano, tra l’alta valle del Tevere e quella dell’Arno, per pregare e digiunare, operazioni che egli alternava alla predicazione itinerante. Pochissime sono le informazioni su ciò che effettivamente avvenne sopra quel monte, ma la storiografia recente ha scritto molto sull’evento prodigioso della stimmatizzazione, ossia la comparsa dei segni della passione di Gesù sul corpo del Poverello, avvenuta in seguito all’apparizione di Cristo in figura di serafino crocifisso con sei ali. E’ noto che le sacre stimmate di Francesco rimasero sempre uguali fino alla morte, mentre la carne viva si modificava naturalmente; si dovette pertanto riconoscere che queste furono create in modo miracoloso miraculose e non in modo naturale per naturam.
Così ne scrisse Dante ne La Divina Commedia nel Canto XI del Paradiso 106 – 108:
«nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese l’ultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno.»
Il verso di Dante riferito al monte della Verna, luogo dove Francesco ricevette le stimmate, è estremamente severo, una severità tale da ritenerlo come una delle stazioni sacre dell’umanità. Uno spazio descritto dal poeta che mira al significato ideale del luogo: solitario e nudo. «Non “monte” ma sasso, e crudo in occulta e profonda armonia con la dura vita, con la dura intenzione scandita attraverso tutta la biografia.» Con «ultimo sigillo» egli si riferisce al miracolo delle stimmate, al sigillo impresso da Cristo sul corpo del santo a immagine diretta della sua passione.
Si narra che Francesco chiese a Gesù che gli facesse provare le sofferenze della sua passione; queste comparvero sulle mani, sui piedi e sul costato immediatamente dopo la visione, tanto che nella narrazione del miracolo, Bonaventura da Bagnoregio (Bagnoregio, Italia, 1217/1221 – Lione, Francia, 15 Luglio 1274) uno dei più importanti biografi di S. Francesco d’Assisi, scrisse:
«porta nondimeno il sigillo del sommo pontefice Cristo, affinché le tue parole e le tue azioni siano da tutti accolte come irreprensibili e autentiche»
(Legenda Maior Sancti Francisci – Caput XIII – De stigmatibus sacris.)
L’immagine riferita ad una direzione presuppone la considerazione dell’azione e del suo opposto: si dirige o si sosta, si apre o si sutura, si entra o si esce, si parla o si resta silenzio, si prega o si rinnega, si vive o si muore. A. Arrivabene ha un’anima tersa e tragica che vive una realtà intrisa di durezza e priva di conforto, nella consapevolezza di un’esistenza che pervade la pittura-testimonianza di un’assenza. Nella tecnica più definita o ricercatamente indefinita, l’universo risplende di dolore accidentale imprevisto e spesso allude alla sofferenza: quando giunge a piegare l’individuo, questi rivolge le braccia al cielo trascinato dal sincero sgomento di poter essere perduto.
Nelle inquiete riflessioni con la materia colore, che mantengono le debite distanze da chi indottrina ma non illumina e non include perché non riesce a superare il fallimento di non possedere la giustificazione al male, prendono forma i luoghi dove le presenze disvelano le memorie dell’incontro con quella parola che è stata amore e colore per un tempo troppo breve. Superato il silenzio e lo smarrimento per l’immenso dolore, lo scavo attinge a quei frammenti per poterla riscrivere. La narrazione di questa particolare esposizione personale, è restituzione terrena di alcuni degli incontri inaspettati, delicati o invadenti, del viaggio della vita, che hanno preteso un ascolto più profondo. La produzione è sempre stata un cammino pittorico scelto, costruzione di un proprio spazio per riflettere, lottare e ripensarsi, scovare gli indizi deflagranti di un percorso fatto di perdite e recuperi.
La linea verticale è l’esposizione di una serie di opere che vivono l’assenza ma onorano la “legge della relazione” pur continuando a “finire” lungo il cammino; non per deporre la vita ma per acquisire efficacia nella comunicazione di un incedere fatto di perdita in perdita, di crisi in crisi, di fame in fame e di tutto ciò che, sperimentato dal corpo, si trasferisce con un segno maggiore quando è più forte la mancanza e facendo morire quello che pretenderà troppa vita. La morte della madre è stato il primo incontro con la fine; essa ha trasfigurato uno sguardo, nell’inquietudine e nella fede, sull’enigma e sull’impotenza, nell’alternanza delle cose in una logica capace di muovere dal buio per consegnare alla luce fino all’ultimo giorno di respiro.
La pubblicazione delle immagini fotografiche in questo articolo della Rivista Digitale ReWriters è stata autorizzata dal Maestro Agostino Arrivabene, dalla Galleria Primo Marella Gallery, dalla Raccolta Lercaro.