Rosie the Riveter è un’icona del femminismo, ma in origine non era così: quella donna che fa il muscolo non è l’emblema dei grandi mutamenti avvenuti nell’America degli anni Quaranta, in quanto a percezione del gender. Il poster di Miller era parte di una serie commissionatagli, durante la Seconda Guerra Mondiale, dalla Westinghouse Electric and Manufacturing Company (il cui logo è ben visibile sotto il maschio gomito dell’operaia). Erano tempi difficili, e la compagnia, per impedire che scioperi, agitazioni sindacali, rivendicazioni salariali o altro rallentassero la produzione, aveva pensato bene di favorire la creazione di un clima collaborativo fra le lavoratrici. Nessun intento di esaltare il women power, nessuna campagna progressista a favore delle donne, solo un’azione dettata da serie preoccupazioni aziendali. A un comitato di coordinamento interno, incaricato di sorvegliare la produzione bellica (War Production Co-ordinating Committee, si legge nella riga in basso a destra dell’immagine), il compito di seguire il progetto. A Miller quello di realizzarlo concretamente.

Nei suoi manifesti le poche donne che si vedono sono d’altronde rappresentate in un’ottica conservatrice: se ne accentua la femminilità, o le si ritrae nella loro assoluta fedeltà all’ambiente casalingo e alle sue occupazioni. Resta il fatto che Rosie, poco importa se i soliti creativi l’hanno parodiata in una specie di Mister Muscolo in gonnella, a garanzia della forza pulente di un set di prodotti per la casa («power of clean anything»), è oggi un’iniezione di fiducia per tante donne. Come la ragazza di uno spot di un po’ di anni fa, intenta a sfidare a braccio di ferro un aitante giovanotto col suo gomito piantato sul cofano di una Nissan Micra.  Come le mamme da combattimento che ballavano la haka, la danza sacra del popolo maori, in una pubblicità della Fiat Idea. Come l’ipermascolina nerd di un film d’animazione della Disney, Big Hero 6 (2014), che  rimproverava così il tredicenne protagonista: «Basta frignare. Fai la donna».

Tante volte abbiamo letto che il coraggio alberga dove alberga la paura, che è la paura a innescare il coraggio e non la sua assenza. È vero, ma si sperimenta talvolta questo: un atto che richiede coraggio fa nascere paure che non si sarebbe mai creduto di poter provare, ci mette di fronte ai nostri limiti. Ogni volta che pensiamo se compiere o non compiere quell’atto, però, ci rispondiamo spesso che, se non l’avessimo compiuto, avremmo mancato alla nostra coscienza, avremmo fatto un torto alla nostra crescita umana, emotiva, intellettuale. Possiamo avere paura di non farcela, ma se ce la facciamo ne usciamo rinforzati nelle nostre convinzioni.

La viltà non è soltanto lasciarsi sopraffare senza reagire, e il coraggio non è soltanto combattere senza mai mollare. La viltà è salire sul piedistallo, o non avere nessuna intenzione di scendere; il coraggio è non salirci affatto. La viltà è compromettersi, anche una tantum; il coraggio è non cedere mai alle pressioni e ai ricatti: la negoziazione (di un’idea, di un valore, di un sapere) ci fa sempre onore, ma il negozio che ci disonora una volta ci disonora per sempre. La viltà è rimirarsi l’ombelico; il coraggio è guardare dritto davanti a noi. La viltà è comportarsi come un nano ai piedi di un gigante; il coraggio è tornare a salire sulle sue spalle: riuscire a smuovere le montagne è un atto di coraggio, ma di tanto in tanto, su quelle montagne, bisognerebbe arrampicarcisi per sperimentare che è ancora più faticoso che spostarle.

I vili accettano di essere promossi, ammessi, chiamati a partecipare a qualcosa per via di cooptazioni, di segnalazioni o delle vecchie raccomandazioni. I coraggiosi sanno attendere, perché sanno che, se meritano più di altri un riconoscimento, quel riconoscimento prima o poi arriverà. Ma se anche non dovesse mai arrivare, il sistema al quale non si saranno piegati non li avrà mai disarmati o neutralizzati con le sue lusinghe. Vili sono gli pseudo-intellettuali organici, coraggiosi gli intellettuali scomodi che pensano differente (ricordando Steve Jobs): osservare il mondo con occhi diversi è reagire all’omologazione, che quegli occhi ce li vorrebbe chiudere, e aiutare gli altri a scoprire la diversità insieme a noi. Il cammino dei vili è accompagnato dai rimpianti, quello dei coraggiosi può essere magari turbato da un rimorso; ma se a un rimpianto non puoi rimediare, da un rimorso ti puoi riscattare. Pensieri, parole, azioni. I vili si fermano ai primi, gli opportunisti non vanno al di là delle seconde, i coraggiosi guardano alle terze. Non sono solo i grandi gesti, o i gesti dei grandi personaggi, a mutare il corso della storia. Se opponiamo sempre ciò che crediamo giusto a quel che riteniamo ingiusto molti altri potrebbero seguirci, o rifare il nostro percorso.

C’è chi non ci vede, chi finge di non vederci, chi ci vede ma non ci guarda, chi ci guarda ma non ci vede. Quando qualcuno comincerà a vederci senza avere bisogno di guardarci, e gli saremo apparsi magari migliori di quanto siamo, allora il cammino intrapreso può essere quello giusto. Quel qualcuno, se avrà trascurato i nostri mille difetti, se avrà ignorato i nostri mille errori, se avrà dimenticato le nostre mille contraddizioni, è perché si sarà convinto che siamo usciti dagli schemi anche per spianargli o aprirgli la strada. Le piccole mafie riproducono in scala le grandi. Logge o consorterie, lobby o combriccole accademiche, recitano tutte la stessa commedia: La fiera della complicità. Se ci si vuole sottrarre a ogni complicità, bisogna essere prima certi di saper sopportare la solitudine. Allora, e solo allora, saremo in grado di opporre la dirittura morale alla legge del branco. Non saremo sbranati, e potremo forse addirittura sperare di averne ragione.

«[V]ivo nei sogni e tu te ne sei accorto», fa dire Hermann Hesse al protagonista (Emil Sinclair) nel suo romanzo Demian: «[a]nche gli altri vivono nei sogni, ma non nei loro». Chi vive i sogni altrui vive una vita più facile, perché vissuta di riflesso. Chi vive in prima persona si deve certo aspettare, con i sogni, anche gli incubi; con i successi, anche le cocenti sconfitte; con gli alti, anche i moltissimi bassi. E’ la legge del cuore, non possiamo farci niente, e la parola coraggio è imparentata proprio con cuore: si tratta infatti di un adattamento di una voce dell’antico provenzale (coratge; cfr. ant. fr. corage) basato su un derivato, di cui non c’è giunta documentazione (*coraticum), del lat. cor.

La legge del cuore ci fa gioire e ci fa soffrire, nella ricerca di verità o giustizia come in amore. Ma una volta che avremo dimostrato di avercela messa tutta, di non esserci risparmiati agli occhi del mondo, allora non serviranno più né premi né riconoscimenti ufficiali. Sarà il mondo a restituirci quel che gli avremo dato. «Amor, ch’a nullo amato amar perdona». Ce lo ha insegnato Dante. Il mondo, se lo abbiamo tanto amato, alla fine dovrà amarci per forza. E quelli che ci avranno ignorato, snobbato o vituperato torneranno a rintanarsi nelle vite prese in prestito che hanno sempre vissuto.

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