Spesso la si vede con turbanti come se fosse una di quelle bellissime donne africane: Alice Sinigaglia è una ragazza schietta, con occhi piccoli come pietre preziose, capace di risate dirompenti e di sguardi silenziosi che incutono soggezione. Sicuramente un astro nascente che ci auguriamo porti un prezioso e importante contributo alla regia femminile italiana (le premesse le ha tutte!…e pure l’anima teatrale!)

Se dovessi raccontare di te in terza persona, come ti racconteresti?
Direi che Alice è caotica, buffa e sempre in movimento. Le piace avere gente intorno, ride di quasi tutto ed è molto impaziente. Può essere molto schietta e anche molto antipatica. Quando trova la pazienza di stare ferma, corruga la fronte e scrive per ore cercando di capirsi e di capire il mondo che la circonda.

Che cosa significa, per te, essere una regista?
Significa tantissime cose. Significa avere il privilegio di stare continuamente a contatto con tutte le arti allo stesso tempo e avere l’onore di orchestrarle insieme. Significa assumersi la responsabilità del processo e delle persone che lo abitano. E responsabilità significa mettersi a servizio – con disponibilità – delle esigenze e degli umori di quella cosa sempre viva e imprevedibile che è lo spettacolo teatrale.

Cosa ti spaventa di più del mondo del Teatro?
La sua misera statura. Mi terrorizza l’impatto pressoché nullo che gli spettacoli teatrali hanno sul mondo reale e sulle sue persone. Si dice “chi salva una vita salva il mondo intero” e io non faccio che ripetermi in testa questa frase quando temo l’inutilità della nostra arte per pochi. A volte questo senso di impotenza, questa piccolezza, mi atterrisce, a volte, invece, una vita da salvare è già moltissimo. Fosse anche solo la mia.

Cosa ti fa “perdere la testa” (in positivo e anche negativamente)?
Da un mese a questa parte – non chiedetemi perchè – i live di Dua Lipa.

Quali difficoltà trovi, se ne hai, nella direzione degli attori/trici?
Mi piace moltissimo dirigere gli attori. È qualcosa che non si finisce mai di imparare, perché continuamente cambiano e ti sorprendono gli esseri umani con cui hai a che fare. Credo di avere un po’ di difficoltà nel prendere le distanze da loro: quando dirigo un attore, sono sempre dalla sua parte, mi identifico totalmente nel suo lavoro, mentre a volte ho l’impressione che sarebbe più utile mantenere una freddezza, una lucidità strumentale che mi permetterebbe di portarlo in luoghi che né io né lui abbiamo nemmeno immaginato. Penso che imparare ad avere una gestione consapevole dello spettro emozionale di un attore, così come del proprio, porti a risultati sorprendenti. Mi sto allenando.

Qual è la parte più bella del tuo lavoro di regista?
Il montaggio, in ogni sua parte: la sensazione fisica di disegnare in aria la struttura di un palazzo invisibile, il lavoro di disseminazione di segni e rimandi, la gestione delle atmosfere. E poi la risoluzione degli imprevisti che nascono sulla scena. Spero non sia vago quello che scrivo, per me non lo è per niente. È un momento molto specifico e meraviglioso, quando mentre segui la struttura che hai immaginato, il caso ti sorprende e devia il tuo percorso. Ti guida, almeno in parte, dentro la tua casa. Quando lo assecondi – il caso – quando non ti irrigidisci, quasi sempre scopri che quel che accade “qui e ora” è organico con la tua idea di regia e che può farla esplodere. Poi, ad un certo punto, se sei rimasto disponibile, il disegno e la verità del palcoscenico si fondono in una cosa sola, la dialettica si risolve e tu non fai più nessuno sforzo. Tu stesso diventi il palazzo, la struttura, la sua regola; tutto dentro di te comincia a parlare un linguaggio che non sapevi di conoscere e tu ti accorgi che sei sempre e solo stato il suo tramite. Così lo spettacolo si compie. Nonostante te.

Che tipo di spettatrice sei, quando vai a Teatro?
Molto attenta, forse un po’ impaziente. Sicuramente lapidaria.

Cosa ti diverte di più del racconto che fanno di te gli amici/che…oppure le persone che non conosci ma delle quali percepisci cosa pensano di te?
Sono molto piccola di statura, ma nonostante questo mio aspetto di bambina ho una certa autorevolezza nel parlare e nel modo di pormi. Le persone che mi amano scherzano molto su questo ridicolo binomio.  Come se fossi una piccola dittatrice, un baby boss, una bambina che gioca a mettere i vestiti dei grandi. Sento che questa cosa fa ridere. Fa ridere anche me. Mi aiuta nell’importantissimo compito di non prendersi mai sul serio.

Cosa abbiamo (fortunatamente) lasciato nel Teatro del passato?
No ne ho idea. Il samovar?

Cosa abbiamo (purtroppo) perso del Teatro del passato?
Una certa consapevolezza del nostro mestiere. Credo che la mia generazione abbia perso quel senso artigianale che invece rende il teatro un fatto molto concreto. Lo vedo quando incontro professionisti di generazioni prima della mia: gli leggo negli occhi – e nelle mani – un senso pratico che non ritrovo nei miei coetanei. Credo che senza “ mestiere” il lavoro del teatro–  così difficile e così in contatto con l’invisibile – rischi di diventare qualcosa di molto fumoso.

Dal tuo punto di vista qual è la fatica maggiore a far riconoscere la propria professionalità in un mondo ancora troppo maschile?
Non lo so. Non credo di essere rappresentativa come regista donna. Non sto facendo particolare fatica, o meglio, certo che sto facendo fatica, moltissima, ma quasi mai la collego al mio essere donna. Poi, magari mi sbaglio. Ma ciò che mi affatica di più dell’essere un’artista donna è questo strano obbligo non scritto a parlare del mio genere. Che ci si aspetti un target femminista da una femmina, questa si che è una fatica. Io non ho nessuna voglia di parlare di donne. Se questa è la mia responsabilità politica, la trovo riduttiva. Se pensassi di dover esprimere un’opinione sull’argomento solo perché appartengo alla categoria, allora sarei sicura – in quell’esatto momento  – di esser diventata sessista.

Sei diventata ciò che sognavi di diventare da bambina?
Da bambina sognavo di fare la stilista, chissà perché, non ho mai saputo niente di moda. Quindi forse no, non la sono diventata. Anche se da un certo punto di vista ho sempre sognato una vita creativa ed effettivamente la ho…perciò si può dire che qualcosa di quel sogno si è realizzato.

Cosa pensi del “Pubblico”? 
Che meno ci penso meglio è.

Chi è il tuo punto di riferimento, oggi (cinema teatro musica arte vita privata…)?
Fra i vivi David Lynch, Werner Herzog e Christoph Marthaler. Sono i primi tre nomi che mi vengono in mente. Tutti – a parer mio – artisti che non hanno mai smesso di mettere a rischio la loro arte e alla cui lezione continuamente torno quando il pensiero mi si impigrisce. Fra i morti mi vengono in mente milioni di artisti/e e scrittori/trici, ma non saprei proprio perché citarne uno invece che un’altra. Mi farò guidare dalla contingenza: ultimamente studio moltissimo Elsa Morante e stimo infinitamente Gianni Rodari. Non direi che è una risposta rappresentativa di chi sono. È solo una risposta estemporanea.

Cos’è che ti fa scoraggiare? 
L’assoluta mancanza di complessità. Qualche volta, quando ho paura del futuro, temo che il mondo si stia assottigliando e che la nostra vista si stia facendo pigra. Forse la semplificazione è in agguato dall’inizio dei tempi e non c’è di che preoccuparsi, ma non riesco proprio a farmene una ragione. Mi deprime notare che un certo grado di complessità e contraddizione non viene proprio compreso. È come se non ci fosse la volontà, né l’onesta intellettuale, di fare pensieri difficili. Mi mortifica chi per pavidità sceglie di non vedere oltre il proprio naso. Negli artisti una tale paura mi repelle. Cosa lo facciamo a fare questo mestiere se non abbiamo il coraggio di spingerci al di là di noi stessi?

L’ultima volta che ti sei commossa per un’opera d’arte (cinema teatro musica musei)?
Guardando Lampi sull’acqua di Wim Wenders. L’ho visto qualche settimana fa al festival del cinema di Roma, non so perché lo dessero, ma sono contenta di averlo visto: è un film scritto magistralmente e con un finale a dir poco incredibile. Wenders è in grado di cogliere di sorpresa la morte, senza, forse, averlo mai desiderato. Durante l’ultima intervista, negli occhi dell’amico morente, la camera di Wenders intercetta qualcosa, un cambiamento, un lampo di una frazione di secondo, un’ombra che improvvisamente si posa sugli occhi del protagonista. Da quel momento in poi, per i dieci minuti finali, ogni suono sembra essere sovrastato da un fischio acuto e lancinante, come qualcosa che nessuno aveva notato, ma che era sempre stato lì: Il dolore. Mi sono commossa perché la fatica che avevo percepito dall’inizio del film e che solo allora riuscivo a nominare, è la stessa di tutti gli esseri umani: negli occhi di tutti noi c’è continuamente la possibilità di un’ombra che – da un secondo all’altro – può annerire il futuro.  Questo è sempre stato e sempre sarà straziante. 

In cosa credi? 
Nella grandi virtù, per dirla con Natalia Ginsburg. Nella gioia e nella generosità, nell’onestà, nell’essere in tanti e fare le cose in grande.

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