“Il nostro genocidio”: questo è il titolo agghiacciante del video pubblicato da B’Tselem sulla crisi a Gaza: B’Tselem è una organizzazione non governativa israeliana che si occupa di documentare le violazioni dei diritti umani da parte di Israele nei territori sottoposti alla sua occupazione. Dunque un video nel quale un’entità israeliana riconosce il genocidio come colpa e responsabilità di tutto lo stato israeliano. Il video definisce la politica bellica di Israele come un tentativo chiaro ed esplicito di distruggere la società palestinese a Gaza e di creare condizioni di vita catastrofiche che ne impediscano la sopravvivenza.

Il video è scioccante, perché a parlare è l’israeliana Yuli Novak, coraggiosa direttrice di B’Tselem: lei parla in lingua ebraica ai suoi connazionali, e dichiara che un genocidio non dovrebbe mai accadere, né qui, né da nessuna parte, né mai. Eppure sta accadendo sotto i nostri occhi, proprio ad opera di chi un genocidio l’ha vissuto. Ma la cosa peggiore del video, è che si prevede che il peggio debba ancora arrivare, perché il genocidio si potrebbe estendere ad altre aree sotto il controllo israeliano. Infatti il governo sta intensificando la violenza in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e all’interno di Israele. In tutte queste aree, i palestinesi vengono abbandonati a un’escalation di violenza, allo sfollamento forzato, alle punizioni collettive e alla negazione dei loro diritti umani, solo perché sono palestinesi. E poiché politici e personaggi pubblici israeliani hanno ripetutamente affermato che la distruzione che Israele sta attuando a Gaza dovrebbe essere estesa alla Cisgiordania, è tempo che questa istigazione sia presa sul serio e fermata prima che si compia.

Il genocidio che è in atto ora nella Striscia di Gaza da un momento all’altro potrebbe diffondersi ad altre aree sotto il controllo israeliano. Attualmente, non esiste alcun meccanismo, nazionale o internazionale, che possa fermarlo.

E intanto l’Occidente che fa? Sono trascorsi un anno e 10 mesi circa dall’inizio della guerra a Gaza e solo ora i ministri degli Esteri di 28 Paesi Europei, insieme a Canada, Australia e Nuova Zelanda, hanno espressamente denunciato e condannato l’operato del governo israeliano contro i civili, con un documento che sottolinea come Israele non rispetti gli obblighi previsti dal diritto umanitario internazionale. Ora, dopo la denuncia, devono seguire i fatti.

Non che le parole non siano importanti. Anzi, sono fondamentali, perché è dalle parole che derivano i fatti, le parole danno forma agli accadimenti, e li rendono riconoscibili. Nel documento i Paesi firmatari dichiarano che “la guerra a Gaza deve finire ora”, e sostengono che “il modello di distribuzione degli aiuti del governo israeliano priva gli abitanti di Gaza della dignità umana“. Parole che sono pietre. Dunque finalmente una presa di posizione decisa, chiara, determinante.

Cosa può fare la politica europea
per Gaza

Ora devono seguire i fatti. Qualche passo incerto già si vede: 24 ore fa il Regno Unito ha annunciato l’intenzione di riconoscere la Palestina, dopo Spagna, Norvegia, Irlanda e Slovenia. La Francia di Macron aveva fatto altrettanto già il 24 luglio. E 48 ore fa Bruxelles ha interrotto la partecipazione di Israele al programma europeo Horizon per la ricerca. Per il momento la sospensione dello Stato di Israele al partenariato con l’Ue è parziale, perché riguarda solo la partecipazione di entità con sede in Israele ad attività finanziate dal Consiglio europeo per l’innovazione (CEI) nell’ambito del programma Accelerator, nato per start-up e piccole imprese con innovazioni dirompenti e tecnologie emergenti nell’ambito della sicurezza informatica e dell’intelligenza artificiale.

Ma politicamente è un passo importante, perché indica la direzione. A questo deve seguire un’azione concreta: primo tra tutti un embargo vero e completo su tutte le spedizioni di armi allo Stato ebraico. E’ ciò che hanno chiesto infatti oltre 230 organizzazioni della società civile globale, fra le quali Amnesty International, con una lettera congiunta ai governi che fanno parte del programma del cacciabombardiere Joint Strike Fighter, chiedendo l’interruzione immediata di tutti i trasferimenti di armi a Israele, inclusi i caccia F-35. I Paesi partner di questo programma hanno infatti l’obbligo legale di fermare le esportazioni di queste armi verso Israele, ma… fatta la legge trovato l’inganno! Infatti i governi di questi Stati aggirano il problema, continuando a trasferire singole componenti dei cacciabombardieri F-35 oppure consentendo forniture “indirette”, passando attraverso gli Stati Uniti o altri partner. E in tutto questo il ruolo dell’Italia è molto delicato, perché è l’unico Paese in Europa a ospitare sul proprio territorio un impianto di assemblaggio finale dei caccia F-35, e questo rende legittima una domanda: qual è il tipo di coinvolgimento dell’Italia nella fornitura di parti di ricambio e nell’attività di manutenzione degli F-35 a Israele? Ci auguriamo che il governo italiano possa dimostrare una completa estraneità all’azione militare israeliana contro le popolazioni civili.

Embargo significa anche interrompere ogni forma di commercio che contribuisca al genocidio, all’apartheid o all’occupazione illegale, sospendere gli accordi commerciali e i partenariati di cooperazione con Israele, compresi quelli dell’Unione europea. E non basta: bisogna adottare sanzioni mirate nei confronti dei funzionari israeliani chiaramente coinvolti in crimini di diritto internazionale. Il primo passo l’hanno compiuto i Paesi Bassi, che il 29 luglio hanno ufficialmente dichiarato persone non gradite i ministri israeliani dell’ultradestra Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich.

Qualcosa dunque si muove nella direzione giusta. Ma la strada da fare è tanta, e va fatta in fretta, per potersi anche impegnare nella ricostruzione della Striscia di Gaza e nel sostegno alla sua popolazione, impedendo ogni tentativo di trasferimento forzato. Intanto lunedì scorso una coalizione internazionale ha cominciato a lavorare per coordinare l’invio di aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Sarebbe il più grande sforzo umanitario internazionale dall’inizio della guerra nell’ottobre 2023.

Questo è ciò che ci aspettiamo dalla nostra politica fin da subito. Da quella italiana e da quella europea. Ma poiché i tempi della politica sono lenti, scanditi dagli incontri diplomatici, dai bilaterali e dai tanti interessi economici in gioco, intanto è tempo che anche noi cittadini, singolarmente, facciamo qualcosa in questa direzione. E non si pensi che noi non possiamo fare niente. Ciascuno di noi può agire secondo coscienza, scegliendo di camminare nella direzione opposta rispetto al genocidio che si sta compiendo a Gaza. E allora vediamo, una per una, tutte le cose che nel nostro piccolo possiamo fare, fin da subito, qui e ora.

Cosa possiamo fare noi come singoli cittadini

La cantante israeliana Noa
  1. Seguire i profili social degli influencer che si sono chiaramente espressi contro il massacro di civili a Gaza e sostenerli con i nostri like e con le condivisioni: tra questi la cantante israeliana Noa, l’attore e scrittore italiano Moni Ovadia, il padre missionario Alex Zanotelli, il cardinale e patriarca cattolico Pizzaballa, ma anche Zerocalcare, Joaquin Phoenix, Cate Blanchett, Susan Sarandon, Roger Waters, Angelina Jolie, Dua Lipa.
    La dichiarazione più recente è quella del 17 luglio, quando la band britannica Massive Attack ha annunciato sui social la formazione di un’alleanza di musicisti che si oppone al genocidio in corso a Gaza e ai tentativi delle organizzazioni filo-israeliane di reprimere le voci critiche verso questo sterminio di massa. Il gruppo si chiama Ethical Syndicate Palestine e tra gli aderenti ci sono Brian Eno, i Kneecap, i Fontaines DC e i Garbage. Artisti che scelgono di non restare in silenzio, e usano la loro immagine pubblica per accendere un faro sugli orrori che si stanno compiendo e sui tentativi di silenziare le proteste. Attraverso le nostre condivisioni le loro voci possono riecheggiare in tutto il Pianeta, diventando un battito incessante, perché ogni minuto di silenzio diventa complicità con questo sterminio. Noi possiamo diventare i megafoni di chi ha il coraggio di usare la propria notorietà in difesa del popolo più solo al mondo.
  2. Scegliere come informarsi: è ormai tempo di diventare cittadini consapevoli in grado di distinguere tra la cattiva informazione, spesso montata ad arte con fake news, e la corretta informazione. Tra le fonti più trasparenti c’è Eye on Palestine, che racconta ciò che accade sul posto attraverso le testimonianze dirette. Troviamo il coraggio di guardare le foto e i video dei ragazzi e dei bambini che muoiono di inedia, per poter capire la menzogna dietro le dichiarazioni di Netanyahu quando parla della Gaza Humanitarian Foundation, una macchina organizzativa definita da Medici Senza Frontiere una trappola mortale. Molto documentato e aggiornato è il sito dell’Ispi, l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, che propone articoli approfonditi in grado di offrire una chiave di lettura seria e oggettiva alla complessità della nostra contemporaneità. Poi c’è Invicta Palestina, un centro di documentazione nato con lo scopo di promuovere la raccolta, la ricerca, la conoscenza di materiale cartaceo, informatico e video sulla Palestina. Un’altra fonte completa e ricca di notizie sulla guerra a Gaza è l’agenzia di stampa Infopal, specializzata sul territorio della Palestina, un’agenzia indipendente che non è sostenuta da governi, partiti o organizzazioni politiche o religiose.
  3. Sostenere la Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati Francesca Albanese nella sua coraggiosa battaglia contro l’occupazione, l’apartheid e il genocidio di Israele nella Striscia di Gaza occupata. Per farlo si può andare sul sito di Amnesty International ed esprimerle il proprio messaggio di solidarietà. Ma si può anche sostenerla sui suoi canali social e ogni volta che in Rete ci imbattiamo in critiche contro il suo operato. E farlo è più che mai importante perché il 9 luglio scorso è stata sanzionata dagli Stati Uniti, con l’intento politico di isolarla da tutti. La Albanese è inoltre oggetto di una campagna di denigrazione da parte del governo di Israele, perché è una spina nel fianco di Benjamin Netanyahu che sta facendo di tutto per negare i suoi crimini. Infatti se digitiamo il nome di Francesca Albanese su Google, il primo link che compare non è quello di Wikipedia (come dovrebbe essere) ma quello di un sito sponsorizzato da Israele (il cui indirizzo ingannevole è govextra.gov.il, che fa pensare ad un sito istituzionale governativo) in cui la condotta della funzionaria italiana è definita incompatibile con le responsabilità e gli standard etici del suo mandato.
  4. Sostenere con donazioni le organizzazioni umanitarie come Unicef, Emergency, Save the Children, Medici Senza Frontiere, UNHCR che con grande fatica cercano di portare sollievo alla popolazione di Gaza. Ora è diventato più indispensabile di prima, perché lo scorso 20 gennaio il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha sferrato un attacco senza precedenti contro l’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale (USAID), sospendendo l’83% di tutti i programmi dell’agenzia. Questa decisione ha profondamente scosso tutto il settore umanitario che dipende per il 40% dai fondi americani. In sintesi, niente più cibo e aiuti essenziali che le organizzazioni umanitarie portavano ai territori afflitti da guerre, disastri ambientali ed epidemie.
  5. Adottare la strategia BDS, ovvero boicottaggio, disinvestimento, sanzione, contro Israele. Ne ha scritto molto bene anche Aurora Amendolagine su queste pagine. Per sentirci cittadini attivi e membri responsabili della società civile possiamo consultare il sito BDS Italia per scoprire quali aziende sostengono con il loro business le politiche delittuose del governo israeliano. Vi troverete marchi come Carrefour, Hewlett Packard, Siemens, Disney+, McDonalds, Coca Cola, e tanti altri, e potrete scegliere di non sostenere con i vostri soldi questi brand.
  6. Partecipare al corteo organizzato a Milano per il prossimo 2 agosto, con raduno alle ore 18 a Piazzale Lodi. Un corteo per dire basta al genocidio e chiedere di fare finalmente entrare nella striscia di Gaza tutti gli aiuti, quelli veri e necessari per sfamare l’intera popolazione.

Per non sentirci complici, per poter dire “non in mio nome”, per poter guardare la foto di copertina di questo pezzo senza scorrere via lo sguardo, e fermarci a chiederci quanta fame ha quella bambina che gira tra le macerie di Gaza cercando avanzi di cibo. E fare in modo che non muoia anche lei come tanti suoi coetanei innocenti.

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