Apocalisse Gaza: cosa fare subito qui e ora per il popolo più solo al mondo
L'Europa per Gaza? Forse si muove. Intanto ecco 6 cose che possiamo fare noi come cittadini, per non restare in silenzio, per non essere complici.

L'Europa per Gaza? Forse si muove. Intanto ecco 6 cose che possiamo fare noi come cittadini, per non restare in silenzio, per non essere complici.

“Il nostro genocidio”: questo è il titolo agghiacciante del video pubblicato da B’Tselem sulla crisi a Gaza: B’Tselem è una organizzazione non governativa israeliana che si occupa di documentare le violazioni dei diritti umani da parte di Israele nei territori sottoposti alla sua occupazione. Dunque un video nel quale un’entità israeliana riconosce il genocidio come colpa e responsabilità di tutto lo stato israeliano. Il video definisce la politica bellica di Israele come un tentativo chiaro ed esplicito di distruggere la società palestinese a Gaza e di creare condizioni di vita catastrofiche che ne impediscano la sopravvivenza.
Il video è scioccante, perché a parlare è l’israeliana Yuli Novak, coraggiosa direttrice di B’Tselem: lei parla in lingua ebraica ai suoi connazionali, e dichiara che un genocidio non dovrebbe mai accadere, né qui, né da nessuna parte, né mai. Eppure sta accadendo sotto i nostri occhi, proprio ad opera di chi un genocidio l’ha vissuto. Ma la cosa peggiore del video, è che si prevede che il peggio debba ancora arrivare, perché il genocidio si potrebbe estendere ad altre aree sotto il controllo israeliano. Infatti il governo sta intensificando la violenza in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e all’interno di Israele. In tutte queste aree, i palestinesi vengono abbandonati a un’escalation di violenza, allo sfollamento forzato, alle punizioni collettive e alla negazione dei loro diritti umani, solo perché sono palestinesi. E poiché politici e personaggi pubblici israeliani hanno ripetutamente affermato che la distruzione che Israele sta attuando a Gaza dovrebbe essere estesa alla Cisgiordania, è tempo che questa istigazione sia presa sul serio e fermata prima che si compia.
Il genocidio che è in atto ora nella Striscia di Gaza da un momento all’altro potrebbe diffondersi ad altre aree sotto il controllo israeliano. Attualmente, non esiste alcun meccanismo, nazionale o internazionale, che possa fermarlo.
E intanto l’Occidente che fa? Sono trascorsi un anno e 10 mesi circa dall’inizio della guerra a Gaza e solo ora i ministri degli Esteri di 28 Paesi Europei, insieme a Canada, Australia e Nuova Zelanda, hanno espressamente denunciato e condannato l’operato del governo israeliano contro i civili, con un documento che sottolinea come Israele non rispetti gli obblighi previsti dal diritto umanitario internazionale. Ora, dopo la denuncia, devono seguire i fatti.
Non che le parole non siano importanti. Anzi, sono fondamentali, perché è dalle parole che derivano i fatti, le parole danno forma agli accadimenti, e li rendono riconoscibili. Nel documento i Paesi firmatari dichiarano che “la guerra a Gaza deve finire ora”, e sostengono che “il modello di distribuzione degli aiuti del governo israeliano priva gli abitanti di Gaza della dignità umana“. Parole che sono pietre. Dunque finalmente una presa di posizione decisa, chiara, determinante.
Ora devono seguire i fatti. Qualche passo incerto già si vede: 24 ore fa il Regno Unito ha annunciato l’intenzione di riconoscere la Palestina, dopo Spagna, Norvegia, Irlanda e Slovenia. La Francia di Macron aveva fatto altrettanto già il 24 luglio. E 48 ore fa Bruxelles ha interrotto la partecipazione di Israele al programma europeo Horizon per la ricerca. Per il momento la sospensione dello Stato di Israele al partenariato con l’Ue è parziale, perché riguarda solo la partecipazione di entità con sede in Israele ad attività finanziate dal Consiglio europeo per l’innovazione (CEI) nell’ambito del programma Accelerator, nato per start-up e piccole imprese con innovazioni dirompenti e tecnologie emergenti nell’ambito della sicurezza informatica e dell’intelligenza artificiale.
Ma politicamente è un passo importante, perché indica la direzione. A questo deve seguire un’azione concreta: primo tra tutti un embargo vero e completo su tutte le spedizioni di armi allo Stato ebraico. E’ ciò che hanno chiesto infatti oltre 230 organizzazioni della società civile globale, fra le quali Amnesty International, con una lettera congiunta ai governi che fanno parte del programma del cacciabombardiere Joint Strike Fighter, chiedendo l’interruzione immediata di tutti i trasferimenti di armi a Israele, inclusi i caccia F-35. I Paesi partner di questo programma hanno infatti l’obbligo legale di fermare le esportazioni di queste armi verso Israele, ma… fatta la legge trovato l’inganno! Infatti i governi di questi Stati aggirano il problema, continuando a trasferire singole componenti dei cacciabombardieri F-35 oppure consentendo forniture “indirette”, passando attraverso gli Stati Uniti o altri partner. E in tutto questo il ruolo dell’Italia è molto delicato, perché è l’unico Paese in Europa a ospitare sul proprio territorio un impianto di assemblaggio finale dei caccia F-35, e questo rende legittima una domanda: qual è il tipo di coinvolgimento dell’Italia nella fornitura di parti di ricambio e nell’attività di manutenzione degli F-35 a Israele? Ci auguriamo che il governo italiano possa dimostrare una completa estraneità all’azione militare israeliana contro le popolazioni civili.
Embargo significa anche interrompere ogni forma di commercio che contribuisca al genocidio, all’apartheid o all’occupazione illegale, sospendere gli accordi commerciali e i partenariati di cooperazione con Israele, compresi quelli dell’Unione europea. E non basta: bisogna adottare sanzioni mirate nei confronti dei funzionari israeliani chiaramente coinvolti in crimini di diritto internazionale. Il primo passo l’hanno compiuto i Paesi Bassi, che il 29 luglio hanno ufficialmente dichiarato persone non gradite i ministri israeliani dell’ultradestra Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich.
Qualcosa dunque si muove nella direzione giusta. Ma la strada da fare è tanta, e va fatta in fretta, per potersi anche impegnare nella ricostruzione della Striscia di Gaza e nel sostegno alla sua popolazione, impedendo ogni tentativo di trasferimento forzato. Intanto lunedì scorso una coalizione internazionale ha cominciato a lavorare per coordinare l’invio di aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Sarebbe il più grande sforzo umanitario internazionale dall’inizio della guerra nell’ottobre 2023.
Questo è ciò che ci aspettiamo dalla nostra politica fin da subito. Da quella italiana e da quella europea. Ma poiché i tempi della politica sono lenti, scanditi dagli incontri diplomatici, dai bilaterali e dai tanti interessi economici in gioco, intanto è tempo che anche noi cittadini, singolarmente, facciamo qualcosa in questa direzione. E non si pensi che noi non possiamo fare niente. Ciascuno di noi può agire secondo coscienza, scegliendo di camminare nella direzione opposta rispetto al genocidio che si sta compiendo a Gaza. E allora vediamo, una per una, tutte le cose che nel nostro piccolo possiamo fare, fin da subito, qui e ora.

Per non sentirci complici, per poter dire “non in mio nome”, per poter guardare la foto di copertina di questo pezzo senza scorrere via lo sguardo, e fermarci a chiederci quanta fame ha quella bambina che gira tra le macerie di Gaza cercando avanzi di cibo. E fare in modo che non muoia anche lei come tanti suoi coetanei innocenti.

