Aprire il fuoco non è una cli-fi. Non è neanche propriamente un’uchronia se è per questo. L’operazione narrativa che fa lo scrittore, giornalista e attivista grossetano Luciano Bianciardi presuppone la storia – che si ripete sulla base di errori di calcolo reiterati – come un insieme di strati, non una linea che a un certo punto si divide e chi legge segue la strada alternativa.

Oltre a questo, dubito fortemente che oggi pubblicherebbero un libro del genere. La prima parte è piena di scene casalinghe, di momenti grotteschi, di riferimenti alle proprie opere e alla propria vita e di insulti fantasiosi a Valentino Bompiani.

La seconda invece è in parte la riscrittura del diario del patriota Giovanni Visconti Venosta. Sembra non esserci nessuna relazione fra le due sezioni invece c’è: bisogna sforzarsi un po’ per coglierla. Oggi al contrario l’editoria italiana è abituata – con rare eccezioni – a servirla facile e avvincente a chi compra e legge mentre questo libro scorre bene ma facile non è. Del resto, l’abbiamo un po’ scordato ma il postmoderno – quando non è vuoto esercizio di stile – presuppone un lettore attivo che sappia decifrare quel che legge.

Neanche la lingua che usa Luciano Bianciardi è facile: il nostro mischia vari dialetti, toscanismi, molte espressioni tedesche e, quanto all’italiano, ibrida quello degli anni Cinquanta del Novecento con quello di metà Ottocento. Mi immagino già le facce meste degli editor e delle editor di oggi se si trovassero davanti a un pastiche del genere.

Quanto a me, lo sento invece vicino. E lo consiglierei come lettura ai movimenti attivi, Fridays for future in testa. Non solo perché quel che scrive l’autore è in linea con la mentalità odierna, ma perché ogni tanto leggere un libro italiano diverso dal solito standard fa bene al morale. Non a caso, l’autore grossetano era anche un instancabile traduttore.

Anche nel romanzo più celebre di Luciano Bianciardi – e recuperate La vita agra, velocemente – il protagonista parte rivoluzionario e finisce, ohimè, risucchiato dal sistema.

Il protagonista autobiografico di Aprire il fuoco invece è proprio fuori dal sistema, in esilio a Nesci (cioè Rapallo dove in effetti Luciano Bianciardi ha concluso i suoi anni), fuori dai giochi. I giochi in questo caso sarebbero le Guerre d’Indipendenza. Corre l’anno 1959 e il Lombardo Veneto è sempre austriaco.

In attesa dei suoi o del nemico come Drogo di Buzzati, triste e nostalgico di casa (Grosseto), il nostro inizia la storia elencando farsescamente tutti i suoi guai giudiziari. Poi passa alla vera ragione dell’esilio: assieme alla compagna Giuditta e all’allievo Giovanni (Visconti Venosta), ha partecipato attivamente ai moti delle Cinque Giornate di Milano, che si sovrappongono continuamente alla Resistenza e a una dimensione di rivolta a metà fra il Sessantotto e i moti di Genova sotto Tambroni. Quindi, non bisogna stupirsi se l’aiuto a insorti e insorte dal contado arriva da un gruppo con a capo Enzo Jannacci o se Carlo Cattaneo e Giorgio Bocca fanno comunella.

La rivolta ovviamente finisce con l’esercito austriaco guidato da Radetzki che torna in città e la riprende, ma prima di ciò – e questo è il vero punto del libro – c’era stato già nella gestione di Milano post-insurrezione un errore fatale.

E l’errore fatale di chi fa la rivoluzione, una volta al governo, è quello di non mettere in dubbio il sistema ma di mettere in atto solo piccole, infime variazioni. Questo errore porta il popolo, che aveva appoggiato i moti, a una svolta reazionaria per stanchezza e a riaccogliere Radetzki e i suoi.

Tutte le conclusioni finali dell’autore – il discorso sul quanto occorra occupare le banche piuttosto che i municipi durante le insurrezioni popolari come le Cinque Giornate – in metafora significano questo. Nessuna rivolta andrà a buon fine se non seguirà un cambiamento ma un ennesimo irreggimentarsi.

Le Cinque Giornate finiscono in fallimento con un re, Carlo Alberto, inaffidabile e un papa, Giovanni XXIII, buono ma inadatto ad essere il capo di uno stato unitario (è potente sostituire una figura davvero innovativa a Pio IX).

La Resistenza invece, dai colori bianco rosso e verde, si muta pian piano in solo bianco – cioè dominio culturale della morale cattolica invasiva della Democrazia Cristiana. La metafora polisemica meravigliosa è la “settimana del bianco” della Rinascente che incarna DC e consumismo assieme.

Nella Vita agra c’era invece il dogmatismo ideologico di sinistra con il critico Aristarco (sotto il nome di Fernaspe) che metteva un freno alla volontà del protagonista di raccontare la tragica vicenda dei minatori di Ribolla – per lui troppo neorealista, superata – auspicandosi un cinema realistico, ideologico e pedagogico come se l’adesione alla cronaca non avesse niente a che fare con la storia in senso ampio.

In Aprite il fuoco Luciano Bianciardi fa il contrario: invece di definire un personaggio ideale che vive attraverso lo stereotipo di un periodo storico – come in effetti da allora hanno fatto molto il cinema e la narrativa italianə – segue la cronaca delle Cinque Giornate di Giovanni Venosta Visconti passo passo e la prospettiva ampia la rende con la sovrapposizione dei piani.

C’è da volergli bene anche solo per aver osato tanto. Protesta dello stile la sua, come l’ha definita il saggista Carlo Varotti.

Ecco che, a questo punto, l’elenco delle beghe giudiziarie di Luciano Bianciardi fatto all’inizio prende senso: molte erano per oltraggio al pudore e reati simili e – dato il tenore dei racconti incriminati (tipo Il peripatetico, un signore con la mania di dare il buongiorno ai culini nudi – non dico altro) – oggi ci fanno sorridere.

Buongiorno culini è anche il sottotitolo di un documentario sull’autore. Luciano Bianciardi quindi è in esilio perché si sente tagliato fuori da una società in cui da un lato il moralismo ti porta in aula di tribunale, dall’altro il dogmatismo è forte ed entrambe le strade portano a un desolante conformismo in cui, se uno vuol fare un certo discorso culturale, non sa come inserirsi. Storia che si ripete, dicevamo. Oggi un esiliato potrebbe trovarsi stretto tra un certo rigurgito reazionario e il conformismo timoroso dell’industria culturale.

Infine, il libro è del 1969: l’autore, scoraggiato ma non fino in fondo, teme che anche il Sessantotto possa prendere la piega fallimentare di Cinque Giornate e Resistenza. Non a torto.

Oggi è un po’ diverso. Le circostanze solo tali per cui ai movimenti giovanili che chiedono giustizia ecologica e civile è chiaro che il sistema deve cambiare radicalmente. È meno chiaro, forse, a una certa sinistra istituzionale che si chiede, smarrita, perché il popolo abbia riaccolto Radetzki. Forse anche da quel lato si dovrebbe rileggere Luciano Bianciardi e prenderne il buono.

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