Cosa succede all’arte e alle sue istituzioni – musei, gallerie, collezioni – quando un paese è in guerra? Lo vediamo oggi con il conflitto russo-ucraino prima e quello israelo-palestinese poi, le cui ripercussioni si sono fatte sentire fino alla Biennale di Venezia, con le tensioni e le polemiche che accompagnano la rappresentanza dei paesi coinvolti oltre che con il contenuto delle stesse opere.

Il senso di claustrofobia che permea il lavoro degli artisti ucraini parla della situazione presente, ma potremmo dire lo stesso dell’assenza degli artisti russi, della visibilità marginale accordata (tra accese discussioni) agli artisti palestinesi…

L’arte e i “Monuments Men”

Ma come ci ricorda la nostra blogger Giulia Sargenti, certe vicende che oggi accadono fuori dai confini europei fanno parte anche della nostra storia: basta guardare indietro di qualche decennio per conoscere i nomi e le azioni di quelle persone, professionisti del mondo dell’arte e non, che dobbiamo ringraziare per aver salvaguardato e recuperato i capolavori presi di mira dalle razzie dei nazisti. I britannici li chiamarono Monuments men (naturalmente c’erano tra loro anche varie donne, ma questa è un’altra storia).

Perché nei conflitti emerge più che mai il valore anche simbolico dell’arte, e non parliamo dell’utilizzo strumentale come veicolo di propaganda. Il punto è che nell’arte diventano visibili la storia e i valori che tengono insieme una collettività, per cui preservare o distruggere l’arte significa preservare o cancellare quella storia e quella collettività. Ma quanto siamo propensi a ricordare questo ruolo sociale dell’arte quando nessuna emergenza ci minaccia da vicino? Nel quotidiano, quanto siamo disposti a prenderci cura del patrimonio artistico comune?

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