Il principe De Curtis, Totò, nella sua ’A Livella, ci racconta poeticamente che la morte mette tutti allo stesso livello, uguali e in pari, con quello che i rapporti sociali ci hanno conferito per nascita o per meriti. Assistendo alla terribile storia delle ultime ore, viene da pensare che a volte di fronte alle barbarie siamo uguali anche da vivi: tutte le vittime sono uguali rispetto all’ingiustizia. Ma bambini e adulti possono essere considerati delle vittime in egual misura?

Non ci sono vittime che meritano attenzione più di altre, ma attaccare i bambini è una evidente e naturale riorganizzazione di una modalità feroce che imperversa nell’animo umano da sempre e che ciclicamente ritorna, più terribile di prima, accresciuta dell’evoluzione del sapere umano.

Il bombardamento del Teatro di Mariupol con la scritta in russo дети, bambini, fa paura, sia per il dolore e la perdita di questi/e innocenti, ma anche perché ci pone di fronte a un problema difficile da gestire per noi che siamo abbastanza lontani e abbastanza vicini: cosa possiamo/dobbiamo fare? Se queste giovanissime vittime fossero state colpite in un campo, in una chiesa, in un palazzo, sarebbe stato lo stesso un orrore; mi permetto di scrivere questi pensieri perché il luogo in cui è avvenuto il massacro è un Teatro, che non è un posto migliore o peggiore per morire in questo modo ma è un luogo che l’umanità ha sempre considerato sede di pensiero e di cultura. Chissà se quel principe del male che ha bombardato lo ha fatto intenzionalmente, chissà perché quelle innocenti e quegli innocenti erano rifugiati in un Teatro.

Pur non avendo le competenze per scrivere di questo orrore, sono mosso dal ricordo e dallo sgomento che mi causano alcune frasi lette e sentite dai grandi pensatori di tutti i tempi, che riflettono su come la perdita del linguaggio sia l’inizio di un indifferenziato che porta alla distruzione. Noi teatranti lavoriamo sulle parole, con le parole, sul loro significato e quello che nascondono o quello che causano, però siamo una parte di popolazione ormai miserella, perchè i teatri soffrono della scarsa partecipazione da parte dei giovani e delle giovani eppure accettiamo tutti e tutte che le cose vadano in questo senso, come a dire, la vita va così, non è più come prima…etc etc etc.

Da oggi a noi teatranti non possono bastare più le stories sui social del pubblico che applaude. Non dobbiamo permettere che dal palco ci si riprenda in selfie con fondale animato da giubilo e contentezza di aver riempito il Teatro di gente. Non dobbiamo permettere che ci sia uno svilimento, un abbassamento verso la semplificazione del nostro mondo. Non possiamo fare questo lavoro solo perché è la nostra passione, il nostro sogno. Dobbiamo avere una maggiore responsabilità, maggiore cura per il tempio del nostro lavoro, altrimenti cosa siamo noi per queste innocenti e questi innocenti che sono stati uccisi in un Teatro?  

Non cambieremo le sorti della storia, ahimè, ma noi di teatro siamo persone che lavorano sull’empatia, sulla capacità di mettersi nei panni dell’altro, riusciamo a sugestionarci al punto di essere altre persone/personaggi diversi da noi, grazie al potere del nostro lavoro, sul pensiero e sulle relazioni e sulle parole. 

Due anni fa colpiti dalla pandemia si diceva “distanziamento sociale” e noi teatranti cercavamo di far capire che era più giusto comunicare con la definizione “distanziamento fisico”; nei mesi successivi alla scoperta del vaccino, siamo scesi in piazza per manifestare contro i vaccini, per le riaperture degli esercizi commerciali e per mille cose (più o meno giustificate) ma nessuno è sceso in piazza a manifestare perché negli ospedali non si potevano assistere i malati terminali, neanche dopo varie dosi di vaccino e neanche se ci si faceva un tampone.

Quante volte i mesi scorsi abbiamo sentito i telegiornali dire più volte “siamo in guerra, siamo in una guerra e dobbiamo combattere”, eppure la guerra oggi è un Teatro bombardato abitato da bambini. Dopo questo orrore, come potrò nuovamente abitare il Teatro per svolgere la mia professione senza sentirmi estraneo a tutto questo? Come assumermi questa responsabilità, oltre a fare donazioni per materiale vario da recapitare in Ucraina, oltre a cercare di ospitare chi scappa da quel paese, oltre a tutto questo, come essere utile? La mia esperienza di autore e attore teatrale, come può generare speranza o addirittura (magari fosse possibile) salvezza?

Forse cercando di dare più valore a quello che facciamo e cercando di essere generatori di pace, con l’esempio e con l’amore per il nostro lavoro e per la gente che vive nel nostro lavoro; so bene che noi scriviamo per chi legge e facciamo teatro per chi va a teatro, non riusciamo ad arrivare al grande pubblico, alla massa che vive e agisce nella parte più grande della nostra società, eppure come quelle piccole lucciole (che si trovano raramente) possiamo essere una via luminosa nel buio, basta avere la forza di reagire a questo orrore, nel nostro piccolo mondo e nel nostro piccolo teatro che ancora sta in piedi. Non dimentichiamoci mai che i grandi maestri di Teatro ci hanno sempre insegnato che per essere veri artisti bisogna ritornare bambini.

Per chiunque volesse contribuire a varie iniziative di solidarietà, vi inolto questo link: è una raccolta fondi che sostiene un gruppo di studenti e studentesse di recitazione, rifugiati presso amici, in Veneto, dei quali conosco Matteo Spiazzi, regista/insegnante che ha lavorato per diversi anni a Kiev.

Matteo e altre persone di buona volontà hanno accolto questi studenti e tra le varie cose che stanno facendo per loro, in accordo con le varie importanti Accademie di Teatro Italiane faranno in modo che durante la loro permanenza qui da noi possano continuare a studiare e formarsi.

Grazie.

Condividi: