Attore dall’abilità mimetica e dall’impronta vocale più che riconoscibile, storico membro della compagnia ravennate Fanny & Alexander: Marco Cavalcoli (ecco un suo breve profilo) è il vincitore del premio Ubu 2022 nella categoria Miglior Attore/Performer per gli spettacoli Ashes e Ottantanove (quest’ultimo disponibile su RaiPlay).

Marco Cavalcoli, di questo premio e della sua voce, ancora una volta, ne fa buon uso e analizza lucidamente la situazione attuale del teatro italiano, costringendoci inevitabilmente a pensare.

E che cos’è il (fare) teatro se non viva manifestazione di impegno anche sociale e scelta politica, intesa come coscienza critica, capace di riflessioni e scelte mature e responsabili?

Marco Cavalcoli – Premiazione Ubu 2022

Ironia della sorte, tra i suoi spettacoli più recenti c’è Ubu re di Alfred Jarry – caposaldo del teatro contemporaneo – con la regia di Fabio Cherstich (2021). Un testo che unisce la satira del potere e il gusto per la provocazione alla sperimentazione linguistica. Suo punto forte, oltre al corpo e alla gestualità, è sicuramente la parola che passa attraverso la padronanza voce. Per dirla alla Bowie, che conosce molto bene, lei è capace di unire suono e visione… 
Ho dedicato allo studio della voce e alla vocalità la parte più consistente della mia pratica artistica, ormai più che trentennale. Ho cercato di approfondire il mio specifico. Ciascuno di noi ha una propria nota di fondo inimitabile, che segnala la nostra unicità. È quello che cerco di passare ai miei allievi. È molto importante, per un artista, cercare la propria motivazione di vita e di lavoro dentro la scena. Cerco di utilizzare tutti i modelli che ho negli occhi e nelle orecchie, che ho assorbito negli anni, per poi portare quello che sono, in maniera molto schietta e diretta, in scena. Il lavoro che faccio sulla voce, è il lavoro che faccio sul corpo. In realtà quella qualità scenica, è una qualità fisica e per questo faccio fatica a differenziare il tipo di lavoro che ho fatto per Re Venceslao – il re polacco che parla con voce di pollo – in “Ubu re” da quello che ho fatto sullo Zar di tutte le Russie. È un lavoro piccolo per quello che riguarda la vocalità ma molto presente nella gestualità. Non sento tutta questa differenza in scena, se parlo o se non parlo: si tratta sempre di un lavoro fisico, di presenza fisica. 

In Ubu re e Ottantanove – spettacoli critici verso la società attuale – Marco Cavalcoli interpreta ruoli taglienti, come la stessa messa in scena: che cosa li rende perfettamente calati nella contemporaneità?
Probabilmente lo sguardo registico. Il lavoro di Frosini-Timpano (guarda “Ottananove” qui, ndr): Elvira e Daniele lavorano sempre sullo scavo storico della cronaca con gli occhi del presente e il ‘qui e ora’ permette in scena di accordarsi a questo loro tratto distintivo. Per quanto riguarda “Ubu re”, sicuramente lo sguardo di Cherstich è stato – purtroppo lo spettacolo non è più in cartellone: bisognerebbe aprire un altro capitolo sulla situazione produttiva e distributiva del teatro italiano – volto al presente, non ha fatto un’operazione storica. Ha riportato le figure a una contemporaneità, pur non attualizzando nulla dal punto di vista della superficie. Ha voluto lavorare sulla violenza o sull’eccesso che ci ha reso, tutte le sere, molto presenti a noi stessi. A teatro, con i diversi artisti con cui ho la fortuna di lavorare, si tratta sempre di avere uno sguardo sul presente. È difficile che il teatro, l’arte, non abbia questo tipo di sguardo. Puoi andare a ritroso nel tempo ma come un archeologo che poi riporta il reperto alla luce dell’oggi. Non vedo un’altra strada per la creazione artistica.

Marco Cavalcoli, Elvira Frosini e Daniele Timpano in Ottantanove – Elvira Frosini e Daniele Timpano / foto © Ilaria Scarpa

Siamo un paese educato al teatro?
Eravamo, un paese educato al teatro. Cominciamo ad esserlo un po’ meno. La nota positiva è che il desiderio da parte del pubblico c’è ancora. È stato particolarmente evidente dopo i due anni di chiusura dei teatri, dovuta alla pandemia. Mentre i cinema faticano a riprendersi perché le persone hanno scoperto la comodità di poter guardare il cinema a casa propria, i teatri si sono visti rinascere, nel senso che le persone hanno sentito il desiderio di tornare a teatro e vedere gli spettacoli dal vivo. Dovremmo approfittare di questo desiderio condiviso tra offerta e domanda per allargare e diversificare l’offerta, per dirla in termini economici.

Ottantanove indaga il concetto di rivoluzione, andando in profondità. E la rivoluzione passa anche dal teatro. Apriamolo definitivamente questo capitolo: qual è la situazione del teatro e della sua organizzazione in Italia secondo Marco Cavalcoli? 
Il teatro Italiano non ha mai goduto di ottima salute. È sempre stata un’arte poco considerata e poco finanziata dall’ente pubblico. Credo che il teatro sia una forma d’arte che necessita di essere finanziato. È nato così, in Grecia, 2500 anni fa. Un’arte che all’epoca veniva finanziata da un cittadino facoltoso, scelto ogni anno dalla città ma per l’interesse collettivo. Ancor più al giorno d’oggi, nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, la scala economica del teatro è infinitamente più piccola di quella di tutte le arti che possono essere riprodotte e trasmesse. Riempire un grande teatro, assicura un pubblico per una sera enormemente inferiore a qualunque altro tipo di pubblico che si possa raggiungere con il cinema, con la radio o con un’opera musicale. Per non parlare dell’arte visiva, che può essere riproposta per anni e anni consecutivamente e raccogliere un pubblico, appunto, vasto. In teatro no: puoi riempire un teatro ogni sera ma i teatri non sono degli stadi. Il teatro italiano è sempre stato poco sostenuto ma ha sofferto anche di altri mali: uno di questi è la ‘settorizzazione’. Le realtà che hanno trovato un proprio posto nel mondo teatrale, lo difendono con le unghie e con i denti e sono poco propense a condividere la torta – già abbastanza esigua – con altri soggetti. Io ho avuto una formazione completamente all’opposto: ho incontrato il teatro a Ravenna con il Teatro delle Albe che ha sempre incoraggiato la nascita di nuovi artisti e nuove compagnie. Come diceva molti anni fa Marco Martinelli, ha alimentato la concorrenza. Sono convinto che ampliare le possibilità di un teatro faccia bene a tutto il teatro: non è importante conquistare la fetta di torta più grande ma ‘allargare’ la torta. Purtroppo negli ultimi vent’anni, da quando è stato ministro Giuliano Urbani in poi, la politica italiana ha cercato – ed è riuscita a farlo – di trasformare i teatri stabili, i teatri pubblici, in luoghi di concentrazione del potere produttivo e distributivo. Contemporaneamente, ha cercato di tagliare tante altre occasioni di circuitazione o visibilità degli artisti. Il risultato oggi, all’alba del 2023, è che ci sono poche strutture in Italia che producono, viene prodotta una quantità di titoli esagerata, che non si riesce a distribuire e la vecchia pratica dello scambio di spettacoli (io porto lo spettacolo nel tuo teatro e ospito lo spettacolo di teatro che tu fai, nel mio teatro, fondamentalmente a saldo zero) è diventata quasi l’unica forma di circuitazione. Questo mette in seria difficoltà le produzioni indipendenti, in particolare la creazione delle compagnie teatrali. Lo abbiamo sentito più volte durante la premiazione degli Ubu di dicembre (lo hanno detto, tra gli altri, anche Fabrizio Arcuri e Umberto Orsini): viviamo un momento di acuta crisi e, se non viene invertita la rotta, l’antica tradizione pluralista della creatività degli artisti italiani, nel teatro, viene fortemente messa in discussione. Credo questo vada molto a detrimento della possibilità del pubblico di vedere spettacoli diversi tra loro e di poter partecipare anche a delle esperienze artistiche rischiose che cercano di esplorare nuovi linguaggi. È una situazione di sofferenza per la creatività e la libertà artistica e in ultima analisi per la possibilità del pubblico e dei cittadini di fruirne. E dato che viene fatto utilizzando delle risorse pubbliche, è ancora più grave.

Come si è arrivati a questa ‘settorizzazione’ e come uscirne?
L’Italia ha vissuto per decenni una situazione abbastanza atipica rispetto al resto d’Europa: siamo il Paese che ha distinto in maniera più rigorosa il teatro di tradizione e quello di ricerca. Abbiamo creato dei canali produttivi e distributivi differenziati, come se fossero campionati diversi. E come se non si potesse passare da un campionato all’altro. È anti-storico da molti decenni e sta cambiando. Da parte nostra, gli artisti della mia generazione – quelli che hanno cominciato a lavorare in un’epoca molto diversa da quella attuale – il contributo che possiamo dare a questo cambiamento è quello di mostrarci capaci di frequentare la tradizione, a volte rinnovandola, a volte celebrandola e avventurandoci, allo stesso tempo, nelle ricerche linguistiche, nelle sperimentazioni più azzardate. Senza un’autentica distinzione tra il teatro di tradizione e quello di ricerca. Ogni sperimentazione parte da una tradizione storica, e la tradizione storica non può essere mai riproposta fermando il tempo che va avanti, vanno avanti le nostre sensibilità, i bisogni, le esigenze e i desideri della società in cui viviamo. Nel mio piccolo, cerco di affermare la possibilità – per un artista come me, che non ha fatto una scuola, che si è formato nel lavoro, insieme a pochi compagni di strada, che ad ogni spettacolo si poneva nuove sfide e si avventurava in territori sconosciuti, da inventare – che questo tipo di ricerca formi artisti capaci di lavorare anche nel solco della tradizione scolastica dell’arte e della cultura: i percorsi non sono differenziati. Ci sono tante strade che vanno in una direzione comune: quella della creazione di opere d’arte che abbiano un senso oggi.

Marco Cavalcoli in Ahes – Riccardo Fazi / foto © Claudia Pajewski

Ha esperienza nella formazione (insegna all’Accademia Silvio d’Amico e all’Accademia di recitazione stap Brancaccio): come affronta con i giovani le difficoltà che incontra il teatro?
Sono sempre molto chiaro con gli allievi. Le scuole italiane diplomano ogni anno una quantità di attori e attrici largamente superiore alle effettive richieste del mercato. Il lavoro che cerco di impostare è volto alla valorizzazione delle specificità di ciascuno: devono uscire dalla scuola con una base tecnica ed espressiva solida ma allo stesso tempo avendo compreso un po’ meglio chi sono e che cosa ciascuno di loro può fare, quali sono le risorse espressive di ciascuno. Affidarsi alla propria unicità è la prima qualità necessaria per poter avere uno spazio di lavoro, l’opportunità di proporre il proprio lavoro

Come affrontano, invece, le nuove generazioni questi ostacoli? Ne percepiscono effettivamente le difficoltà?
I giovani hanno una consapevolezza molto disincantata della realtà. Che viene anche dalla frequentazione, come giovani spettatori, degli spettacoli che si facevano nei primi anni 2000 e che fanno anche gli artisti che si sono formati molto tempo fa. In questo momento hanno possibilità nuove, dal punto di vista del lavoro cinematografico. Le serie televisive – soprattutto quelle dedicate ai giovani e fatte dai giovani, con i giovani – vivono un momento di grande crescita e alcuni di loro hanno la possibilità di lavorare in strutture teatrali importanti e con delle possibilità economiche, nella creazione degli spettacoli, abbastanza rare e una volta impensabili. Però sanno di essere all’interno di un sistema di cui è difficile cambiare la fisionomia. Non so quanto questa consapevolezza li possa portare a una vera e propria presa di coscienza della situazione e quindi ad azioni che possano cambiare i difetti di questa situazione. Per questo non devono essere lasciati soli: è importante che i colleghi più grandi portino avanti queste istanze insieme a loro.

Progetti futuri per Marco Cavalcoli?
Ho iniziato le prove di “Anatomia di un suicidio” di Alice Birch (tutte le info qui, ndr), con lacasadargilla e in estate parteciperò al lavoro di Nervalteatro, con Maurizio Lupinelli e Elisa Pol, sul Marat-Sade, con una compagnia di attori disabili, per Ravenna Festival. Per il futuro, le idee sono tante, in particolare per quel che riguarda il mondo delle produzioni audio… tenendo sempre presente che lavoro molto all’interno delle proposte e delle creazioni di altri artisti. L’ambito della mia creatività è un ambito fisico, corporeo, fatto in scena quindi difficilmente faccio partire un progetto artistico da una mia istanza registica. Vediamo che cosa mi porterà, questo futuro!

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