Anni fa, una mia amica trans mi confessò che non aveva intenzione di continuare la terapia ormonale che aveva intrapreso sul proprio corpo da qualche mese e che non avrebbe effettuato l’intervento per la rimozione del pene e la vaginoplastica.

“Non so come fai con tutti sti estrogeni. Certo, la pelle e i capelli sono più belli ma come li gestisci quei micidiali sbalzi di umore?” mi disse.

L’ascoltavo con attenzione: sono sempre stata incuriosita dalle scelte che vanno contro gli stereotipi e adoravo la naturalezza con cui C. si stava confidando con me.

“Adesso non so se posso ancora definirmi donna o cosa. Ma sai che c’è? Chiamatemi come vi pare, io non ho intenzione di stare male per farvi un favore”, aggiunse.

Questa sua frase mi colpì molto. Davvero qualcuno poteva dubitare del suo essere palesemente donna? Davvero c’era chi legava il concetto di mascolinità e femminilità a qualche centimetro di corpo cavernoso? Ovviamente, per me lei era sempre lei, una donna dalla femminilità prorompente, decisamente più della mia.

Le imposizioni della società sul corpo

Da allora ho riflettuto molto sulle imposizioni che subiscono i nostri corpi da parte della società e sulle analogie che uniscono i corpi non conformi, che lo siano perché disabili, grassi, razializzati, queer o trans. Corpi che passano vite intere ad adeguarsi finché non decidono di dire basta.

Corpi Ribelli a cura dell’antropologa Giulia Paganelli racconta proprio di questa ribellione, che altro non è se non un’affermazione, quella di esistere e di avere il diritto al racconto e alla rappresentazione. Quanto sia necessario soffrire per rientrare in un canone lo può sapere solo chi in quei corpi ci vive ogni giorno, chi deve affrontare un mondo in cui non trova spazio. La scelta di passare per le testimonianze dirette è tanto più forte quanto lo è la rielaborazione di quei vissuti in un’ottica di attivismo. Leggendo si scopre come la spinta sociale a rientrare in un determinato schema colpisca non solo chi vive in corpi non conformi ma ognuna e ognuno di noi, generando anche malattie.

I disturbi alimentari, il controllo sul corpo

I disturbi alimentari prosperano in un mondo che chiede a gran voce il controllo sui corpi, che ne sancisce l’accettabilità e che restringe sempre di più il concetto di bellezza, decretando che quello che si trova al di fuori di quel confine non solo è brutto, è spaventoso. La grassofobia, la transfobia, il razzismo e l’abilismo hanno in comune la sovrapposizione tra un confine estetico e soggettivo e un altro confine, morale e oggettivo. Tutto ciò che si muove all’esterno di quel confine è pericoloso, dannoso, mostruoso e il terrore che genera spinge e mantiene verso una ricerca ossessiva della conformità.

Sappiamo che quasi il 10% delle persone trans soffre di disturbi alimentari (10.5% per gli uomini transgernder e 8.1% per le donne transgender), mentre uno studio americano pubblicato dal National Institute of Mental Health più di 20 anni fa ha dimostrato che già allora le donne con disabilità fisiche avevano più probabilità di sviluppare anoressia o bulimia rispetto alle donne senza disabilità. D’altra parte, non c’è bisogno di ricordare che il bullismo grassofobico è uno dei maggiori trigger per lo sviluppo di un DCA. Se mettiamo insieme questi dati, ci rendiamo conto che una qualche correlazione tra il vivere in un corpo non conforme e la disperata ricerca della conformità attraverso un disturbo alimentare deve esserci.

I disturbi alimentari sono patologie multifattoriali dall’eziologia complessa ma senza ombra di dubbio prosperano e si mantengono all’interno di una società che controlla i corpi e sanziona con l’invisibilità o la spettacolarizzazione quelli che non rientrano nei canoni imposti. Scardinare la dittatura dei e sui corpi non è solo questione di democrazia, fa anche parte di una strategia intersezionale di lotta a queste malattie.

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