“La banalità del male”, scriveva Hannah Arendt nel suo saggio sul processo ad Adolf Eichmann tenutosi a Gerusalemme nel 1961. Quel titolo, spiegò l’autrice, che in originale è Eichmann in Jerusalem – A Report on the Banality of Evil, si riferisce al fatto che il gerarca nazista non era malvagio nell’anima, ma completamente inconsapevole di cosa stesse facendo. E la letteratura, così come l’arte in generale, ha da sempre sviscerato il male, declinandolo e raffigurandolo nei più svariati modi. Una cosa, però, è forse certa. Il male non è così banale. O meglio, è la leva che permette ai buoni di esistere e, per uno strano ossimoro, di sconfiggerlo. Per capire il concetto, allora, ci viene ancora una volta in aiuto il cinema, quell’arte che ha saputo mischiare le regole e gli archetipi instaurando in noi un piccolo tarlo: e se venisse prima il giusto e lo sbagliato rispetto ai concetti assoluti di bene e male? Così la scena che racchiude la metafora è da estrapolare da quel capolavoro che è Il Silenzio degli Innocenti, che ha appena compiuto trent’anni.

Jodie Foster alias Clarice Sterling incontra per la prima volta Anthony Hopkins aka Hannibal Lecter. Si scrutano, si parlano, si confrontano. Lei è una giovane recluta dell’FBI, lui un cannibale. Schizzato e nero, ma anche estremamente intelligente e lungimirante. È affabile, gentile, colto. Eppure, gli occhi sono iniettati di qualcosa che va oltre l’oscurità. Nonostante questo, il magnifico duetto, porterà i due attori all’Oscar e, soprattutto, porterà alla cattura dello psicopatico Buffalo Bill. Ed è proprio qui che il film di Jonathan Demme riscrive i canoni del male nel cinema. Non è più soltanto una questione di buoni e di cattivi, ma di compromessi, di scelte, di sfumature. Il male è improvvisamente cambiato, è talmente perverso da risultare affascinante, si scontra addirittura con l’altra faccia del male stesso. Ovvero quella brutale e scelerata di Buffalo Bill che disgusta e turba lo spettatore, finendo – pensate un po’ – a tifare per Hannibal.

Altro che banalità, qui c’è una costruzione d’intenti che ha cambiato la strada alla narrativa come hanno saputo fare solo il Norman Bates di Psyco, il Darth Vader di Star Wars o il Joker dei fumetti/film DC. Infatti, da Il Silenzio degli Innocenti, è cambiato l’approccio verso i malvagi. Pensiamo alla Disney. I villain fino all’inizio degli Anni Novanta erano brutti, sporchi e grassi. Poi l’inversione: Scar de Il Re Leone, sinuoso e spietato; Gastone de La Bella e La Bestia, belloccio e infimo; Frollo de Il Gobbo di Notre Dame, elegante e spregevole. Piano piano il cinema rivedeva la figura del cattivo portandola su un altro piano, avvicinandola ai buoni, facendo perdere l’orientamento e finendo per rendere quelle figure tanto detestate quanto ammirate. Un altro esempio? Gordon Gekko di Wall Street, brooker senza scrupoli che, però, ha messo in piedi una vera e propria filosofia di vita, opinabile ma, senza dubbio, attrattiva: perché condannare l’avidità se è proprio l’avidità a rendere gli uomini liberi? Ecco.

E come non citare Alonzo Harris, interpretato da un enorme Denzel Washington, in Training Day. Sbirro corrotto e dai modi anticostituzionali, che cerca di indottrinare alla violenza l’allievo Jake/Ethan Hawke. Per il ruolo Washington ha vinto l’Oscar e, cosa più importante, ha fatto scattare un clic nella testa degli spettatori: e se per garantire il bene bisogna passare irrimediabilmente attraverso il male? Trasversalmente non possiamo citare il genere contemporaneo per eccellenza. Nei cinecomic i cattivi sono una parte centrale e, in casa Marvel, hanno saputo idealizzare il concetto dando corpo a due dei migliori malvagi cinematografici degli ultimi tempi: Loki e Thanos. Entrambi Dei, entrambi con un profondo e affatto scontato senso filosofico: Loki, anticonformista ed eclettico; Thanos dolente e, a suo modo, visionario.

Il discorso, poi, si esalta se sconfiniamo nelle serie tv. L’esempio uno e trino è ovviamente Frank Underwood/Kevin Spacey in House of Cards, lo show Netflix che di fatto ha edificato la Golden Age della serialità. Frank è un uomo spregevole disposto a tutto pur di diventare Presidente degli Stati Uniti. Un POTUS che diventa poi il machiavellico simbolo del potere smanioso e impazzito. Frank è un vero cattivo. Eppure, sempre Frank, è un mito irresistibile, colui che ci ha inchiodato davanti la televisione per cinque stagioni (e mezza…), esaltandoci quando, contro tutto e tutti, sfidava l’establishment di Washington. E non è un caso, quindi, che House of Cards sia stata anche una delle serie preferite di Barack Obama, ex Presidente nonché Premio Nobel per la Pace. Perché, alla fine, una cosa è certa: il male non vincerà, ma di certo ci va molto vicino…

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