Sono passati 25 anni da quando entrai in libreria e, attratto da una copertina rossa molto accattivante e da un titolo decisamente originale, acquistai Dal cybersex al transgender. Tecnologie, identità e politiche di liberazione di Helena Velena. Ricordo che fu una lettura avvincente e, per certi versi, davvero liberatoria.

Ero un giovane studente di filosofia, amante della psicoanalisi e attratto dalle tematiche della rivoluzione sessuale: mi interessava tantissimo il modo in cui il Novecento, e in particolar modo gli anni ’60, avevano approfondito il ruolo della libido nella costruzione della personalità e dei rapporti sociali, la critica ai modelli patriarcali e familistici, l’ipotesi di un’utopia che coniugasse emancipazione umana e liberazione della sessualità.

In quella grande abbuffata di letture (da Freud a Marcuse, da Reich a Lacan, da Fromm a Fagioli) il testo di Helena Velena cadeva davvero inaspettato, per prospettiva, per stile di linguaggio, per radicalità.

Non capii subito tutto, lo confesso, perché Helena Velena ha una scrittura molto densa in cui vengono come centrifugati riferimenti alla cultura alta e bassa, alla quotidianità mass mediatica, alla cronaca, al mondo underground della musica e del sesso, spesso con accenni enigmatici, una sigla, un nome, una parentetica fuori contesto. Helena Velena veniva da una storia politica lunghissima di cui si faceva testimone vivente. E io all’epoca non sapevo nulla del suo passato, né politico né musicale.

Eppure in quel magma emergeva chiara una proposta teorica e pratica di cui lo stile non era che un ulteriore esempio: rompere le barriere, decostruire le attese prestabilite, rendersi conto che la realtà è un flusso in continuo cambiamento e cercare di essere dentro a quel cambiamento.

Una critica radicale della tradizione, dell’etero-patriarcato ma, soprattutto, di una visione del sapere come mera teoria e la necessità di assumere anche nella prassi quotidiana un atteggiamento contestatorio e rivoluzionario. Un situazionismo senza riserve.

Certo, già all’epoca ero sospettoso verso quella mistica della metamorfosi con cui il postmoderno accademico stava apparecchiando l’egemonia neoliberale tuttora trionfante, smontando ogni possibilità di costruire un discorso antagonista e di classe che rifiuti la logica auto-assolutoria del capitale, per cui ognuno è colpevole di qualche forma di oppressione e si tratterebbe solo di desiderarci diversi per realizzare il cambiamento sperato.

Il capitale, nel frattempo, ringrazia e fabbrica un mondo a sua immagine e somiglianza in cui nessuno ne disturba il meccanismo nella sfera produttiva.

Il testo di Helena Velena era molto meglio di questo però. Già nella Postfazione di apertura alla Remastered Edition pubblicata 5 anni dopo l’uscita del libro, Helena Velena appariva consapevole del pericolo di un recupero di temi apparentemente radicali ma poi normalizzati e resi innocui.

E dichiarava la sua indisponibilità a farsi recuperare da ogni tipo di establishment. La sua scrittura era testimonianza vivente e vibrante di una vita contro ma, soprattutto, non ammetteva nessun compromesso con il pensiero accademico.

La potenza punk del libro
di Helena Velena

Una qualità che compresi e apprezzai solo successivamente è quanto il libro di Helena Velena fosse, fondamentalmente, un libro punk, e di come tutto ciò che diceva fosse incomprensibile senza leggerlo sullo sfondo della cultura antagonista post ’77.  

Capii meglio tutto questo solo quando ebbi l’occasione di conoscerla e suonare insieme a lei quasi dieci anni dopo. Insieme all’amico Cristiano Luciani (Chris X) e altri personaggi del sottobosco musicale romano (tra cui Niccolò Contessa dei Cani) mi ritrovai a fare da chitarrista per un improbabile progetto in cui i testi di Helena Velena venivano musicati, semi improvvisati, in una forma di strano miscuglio punk-funky-noise.

I testi di Helena Velena erano magnifici, politicamente provocatori, disturbanti, poetici e dadaisti al tempo stesso. La musica, di cui purtroppo non è rimasta testimonianza, era stralunata e imprevedibile, un caos informale pulsante, vivo, che la stessa Helena Velena ci chiedeva di rendere sempre più intenso, muovendo dal suo amore per la musica punk e black.

Ricordo le interminabili chiacchierate con Helena, era come essere davanti al suo libro, un flusso continuo che ci portava dalla politica alla musica, dal BDSM alla pittura astratta. Ma una cosa bellissima notai subito in Helena: sa fermarsi ad ascoltare.

Ti guarda con uno sguardo attento e curioso e sa fare spazio a pensieri altri. Perché in effetti non si può celebrare l’irruzione radicale dell’Altro se non vivendolo in prima persona, se non facendosene attraversare e trasformare.

Il cybersex per comprendere
tutta la sessualità

Dal cybersex al transgeneder è un libro che ha fatto epoca proprio per questo suo carattere inclusivo e dirompente al tempo stesso. ­Le pagine più famose ed eroiche, ovviamente, sono quelle in cui Helena Velena parla dell’esperienza del cybersex, dei diversi sistemi ingegnati per permettere il sesso a distanza, dalle chat fino alle tute.

Ma il tema decisivo che emerge non è solo quello, all’epoca di moda e forse oggi un po’ demodé, di come la sessualità virtuale potesse essere intesa come estensione sperimentale di quella reale.

Piuttosto, il taglio che diede Helena Velena al testo era un altro: il cybersex permetteva di comprendere meglio la sessualità considerata normale. Di fatto quest’ultima diventa un caso di quella. Perché reale e virtuale non si contrappongono come due piani del discorso ma sono uno il fantasma dell’altro, uno il ghost in the machine dell’altro.

E mi rendo conto che a scrivere di Helena Velena finisco un po’ per scrivere come Helena.

Su youtube è presente un documento storico in cui Helena Velena (all’epoca Jumpy Velena) presenta l’etichetta Attack Records. Consiglio di entrare da lì per scoprire la grande forza culturale e musicale di questo personaggio straordinario.

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