Danzatore eccentrico, onirico, dalla sensibilità contemporanea e dall’intuizione innovativa, emblema della pluridisciplinarità, imprevedibile e ribelle. Sul palcoscenico diverte, elettrizza, coinvolge e trascina altrove, ma sempre alle sue condizioni, senza compromessi. Ottantatré anni fa, il 3 maggio 1938, nasceva Lindsay Kemp.
Daniela Maccari – sua assistente, coreografa e prima ballerina della storica Compagnia (fondata nel 1962), The Lindsay Kemp Company, ne tiene viva la danza anche attraverso questo racconto. Che non è altro che un lungo ricordare – da intendere nel senso originario del termine: re-cordari (da cor, cordis), riportare al cuore, per gli antichi, la sede della memoria – il tempo ballato con Lindsay, fino al suo ultimo giorno. Condividendo quel suo danzare gentile e rivoluzionario che include tutti gli aspetti del mestiere scenico, che fonde elementi della Commedia dell’Arte e del teatro giapponese in un’unica avanguardia e restituendo di nuovo quel generoso ‘For You’ che non smette di abbracciare il pubblico.

Daniela Maccari, come nasce la tua passione per la danza?
A casa mia ho sempre respirato musica. Mio padre suona il pianoforte e sembra che fin da piccolissima – due, tre anni – appena lui cominciasse a suonare o mettesse un disco, io iniziassi a zompettare. Convocavo i miei genitori in camera mia, per assistere a uno spettacolo improvvisato su una musica, rotolando in terra… mi hanno sempre detto che il talento lo vedevano nel mio saper mascherare le cadute con pose plastiche e interessanti. Devo a loro l’impulso iniziale: hanno capito la mia propensione, hanno assecondato la mia passione portandomi a concerti, opere liriche e tanti balletti, sin da piccola… e poi finalmente, in una scuola di danza. Avevo quattro anni. Ho provato ogni tipo di sport: sci, tennis, nuoto… poi crescendo, li ho abbandonati. Ma la danza è rimasta.

Daniela Maccari in L’Angelo – photo by Matteo Ricci

Nel 2009 conosci Lindsay Kemp: inizia la vostra collaborazione. Entri nella sua Compagnia – The Lindsay Kemp Company – prima come danzatrice, poi anche come coreografa e assistente. Che cosa ricordi di quel primo incontro?
Ero a Parigi durante le vacanze di Natale e ho ricevuto un messaggio. Un mio amico attore, Simon Blackhall, mi scrive: “Ti interesserebbe danzare con Lindsay Kemp?”. Ho creduto fosse uno scherzo! Lui lavorava già con Lindsay, sapeva che aveva bisogno di una coreografa per “Cinderella” e mi sono precipitata all’audizione. Ho capito che avrei danzato quando ero ancora piccolissima ma non c’è stato un momento preciso in cui ho pensato ‘faccio la ballerina’. Ho studiato, mi sono laureata (in lettere antiche, ndr), ho questa passione per la lingua e l’etimologia… Sai quando c’è una giornata che ti cambia la vita? Quando senti che sei proprio nel posto giusto e non vorresti essere altrove? Ecco. Quel 9 gennaio del 2009 mi ha letteralmente cambiato la vita. 

Che cosa ti ha colpito di lui?
Lindsay, con la sua capacità di aiutarti a danzare attraverso le immagini, ha subito tirato fuori tutto ciò che avevo dentro. Mi hanno sempre definito una danzatrice con una forte personalità, molto passionale, istintiva. A volte mi hanno fatto sentire come se ne avessi troppa. Invece quest’uomo che con semplicità e chiarezza mi esortava a trovare la mia libertà, “voglio vedere il vostro spirito che danza”, diceva… Per me è stata una rivelazione. L’audizione si è svolta al Teatro Goldoni, a Livorno, e quando Lindsay è entrato, insieme a David Haughton (suo collaboratore, memoria storica della Compagnia)… mi aspettavo la leggenda, il mito. Ma è entrata anche la persona più simpatica, affabile, decisa e determinata che avessi mai conosciuto. Mi sono sentita subito a mio agio. In queste occasioni si respira sempre un po’ di tensione… ma Lindsay faceva venir voglia di danzare anche alle poltrone della platea! Per aiutarci a ballare, ti suggeriva immagini semplici ma capaci di aprirti un mondo. Sono entrata subito in sintonia con lui, come persona e ancor più come artista, quando mi ha chiesto di salire sul palco e danzare. Quel giorno ho trovato la mia danza, quella vera.

La quotidianità con Lindsay Kemp

Come ti ha comunicato che aveva scelto te e come si è poi evoluto il vostro sodalizio artistico? 
Il giorno dell’audizione mi ha detto: “good start!”, “buon inizio!”: si riferiva proprio al lavoro, all’inizio della nostra collaborazione, dando per scontato che avessi già cominciato. Dopo soli cinque minuti, mi sembrava di conoscerlo, di aver lavorato insieme da tutta una vita. Lindsay me l’ha confermato: anche a lui sembrava di lavorare con me da sempre. Eravamo due danzatori trasportati dalla musica ma eravamo anche due amici, due ‘discoli’… durante le riunioni burocratiche, magari ci annoiavamo, lui mi dava delle pedate sotto il tavolo come a dire “scappiamo!”. Le mie più grandi risate sono state con Lindsay, adorava farmi degli scherzi, spaventarmi, entrare mentre ero in camerino e mi truccavo in silenzio: spalancava la porta urlando “HELLO!”. Faceva lo stesso durante il riscaldamento, in sala prove: entrava all’improvviso e urlava “HI!”. Ha aperto la porta per anni con uno scherzo diverso, indossando maschere orribili… Quanto mi sono divertita! Quando fai un lavoro che ti piace tanto, è come se non lavorassi mai. E allo stesso tempo, lavori sempre: magari in treno o a pranzo, durante le tournée o per strada, camminando, se a lui veniva un’idea, cominciavamo a parlarne immediatamente. Si distingueva per la sua educazione, la gentilezza d’animo, il rispetto per il lavoro degli altri. Era molto esigente – giustamente – e in scena si vedeva il risultato della sua pignoleria, la sua attenzione ai dettagli. Ma sapeva chiedere con educazione e soprattutto sapeva ringraziare. Aveva a cuore la mia ispirazione, voleva nutrire la mia creatività: mi consigliava letture, film, spettacoli… voleva che trovassi la mia ispirazione e allo stesso tempo voleva essere ispirato da me. Mi trattava alla pari, il nostro era uno scambio. E questo mi dava un senso di gioia infinita e anche un senso di responsabilità enorme. Ma fa tutto parte del gioco.

Lavorare con Lindsay Kemp

In “I Sing Ammore” crea il primo solo per te. Poi il ruolo della Principessa nell’“Histoire du Soldat”… Come lavoravate ai diversi personaggi e ai vari spettacoli?
Lavorare con Lindsay Kemp come coreografa, danzatrice e collaboratrice più stretta vuol dire occuparsi di ogni cosa, dalla scenografia ai costumi, dal trucco agli oggetti di scena. Devi avere una visione globale. Ho imparato con il tempo. Con i ruoli che mi ha assegnato, ho sperimentato la diversità. Per lavorare insieme a lui, dovevi essere molto versatile, non potevi avere un cliché, dovevi avere una grandissima apertura. Questo mi entusiasmava: non sapevo mai che cosa aspettarmi o che cosa potesse chiedermi. In “I Sing Ammore” avevo un cameo, con il mio primo solo: un omaggio al burlesque. Indossavo un costume anni ’50, una parrucca, tacchi, smalto rosso – io che in vita mia non lo metto mai! – fumavo in scena, dovevo sembrare anche un po’ ubriaca – tutte cose lontane da me: non fumo e sono astemia! – e poi mi toglievo i guanti con i denti: uno spettacolo molto raffinato, è stato un grande divertimento! Ho interpretato il ruolo della Principessa nell’“Histoire du Soldat”, ispirato a una diva del film muto, sia nel costume che nell’acconciatura ma… con le punte. Lindsay mi chiese dei fouettés, virtuosismo della danza classica. Non mi sarei mai aspettata che mi chiedesse di indossare calze rosa da ballerina, punte e… fouettés! Il ruolo mi spaventava, tecnicamente è stato quello più difficile, forse – e i fouettés spaventano qualsiasi danzatore! C’erano anche aspetti comici, ironici e trasgressivi: me li godevo tantissimo dopo aver fatto i fouettés! Ivan Ristallo, che interpretava Il Soldato, vedeva il sollievo sul mio volto appena terminavo l’esecuzione. Anche per lui è stato uno spettacolo duro, ma reggeva benissimo in scena, nell’alternare il ballo alla recitazione. Questo è stato anche il primo spettacolo che mi ha unito a Ivan, che è diventato il mio partner sul palco e con cui ho poi danzato tutti i passi a due.

Poi è arrivato “Kemp Dances”: lì ottieni il ruolo di prima ballerina, creato ancora appositamente per te…
In “Kemp Dances” Lindsay mi ha assegnato dei ruoli che ho sentito subito molto miei. Ha creato per me La Femme en Rouge, una prostituta francese. In un’atmosfera tipicamente kempiana, è ambientato in un caffè parigino, con musica anni ’40. Lì nasce una storia d’amore con un marinaietto (interpretato da Ivan Ristallo): lei crede di aver trovato finalmente la felicità ma i due vengono interrotti dalla radio che annuncia l’arrivo delle truppe naziste a Parigi e lui viene richiamato in guerra ed è costretto a lasciarla. Ho amato anche La Principessa ma quello era un ruolo già scritto, anche se ricostruito, La Femme en Rouge, invece, nasce proprio dalla mente di Lindsay, dalla sua fantasia, ha scelto le musiche… Io l’ho coreografo. E lo stesso è avvenuto anche per La Traviata: Lindsay l’ha diretta, io l’ho coreografata. Come sempre non si sapeva dove finiva l’uno e dove iniziava l’altro.

Lindsay Kemp e Daniela Maccari in Nijinsky – photo by Maria Grazia Lenzini

Qual è il ruolo o lo spettacolo che hai interpretato e danzato insieme a Lindsay a cui sei più affezionata?
Kemp Dances”: è il mio spettacolo preferito. E La Femme en Rouge la sento molto mia… ma un altro ruolo molto nella mia pelle, che continuo a danzare con gioia, è Il Cigno: è un’eredità che ho ricevuto. Lo aveva danzato Nuria Moreno, ballerina della Compagnia prima di me. È di Lindsay Kemp e Marco Berriel. Il Cigno è il personaggio della ballerina pazza, forse il più emblematico della storia della danza, con la musica di Camille Saint-Saëns. L’ascolto di questa musica le fa rivivere i movimenti, come se glieli tirasse fuori attraverso la pelle. Non ha nulla a che fare con la variazione classica della morte del cigno. La ballerina cerca il movimento, la bellezza ma indossa un tutù distrutto, una sola scarpetta, ha i capelli sciolti. In “Kemp Dances” (spettacolo che unisce invenzioni e reincarnazioni, creazioni e frammenti del classico repertorio kempiano e nuove interpretazioni. In scena, quattro personaggi contrastanti: tra questi, una Violetta onirica in “Ricordi di una Traviata” e il leggendario ballerino Nijinsky, dalla pazzia mistica, ndr), nel Nijinsky, ho avuto il privilegio di danzare accanto a Lindsay. I suoi occhi in scena sono indimenticabili, per chi li ha visti. Ti davano una potenza e una forza in grado di farti credere di poterti sollevare da terra.

Qual è invece il ruolo, lo spettacolo di Kemp a cui sei più affezionata?
Flowers, pur non avendolo visto a teatro: quando è arrivato nella mia città, i miei genitori sono andati a vederlo, io ero troppo piccola. Dal vivo ho visto Alice, ero già più grande. Flowers però è quello che ho (ri)conosciuto davvero stando proprio accanto a Lindsay. Negli anni, tutti coloro che venivano a salutarci dopo gli spettacoli dicevano: “Ho visto Flowers e mi ha cambiato la vita! Ho visto Flowers e ha cambiato il mio senso artistico!”. Non solo artisti ma anche chi non aveva nulla a che fare con il teatro o con la danza. Il pubblico manifestava una vera gratitudine anche venti, trenta anni dopo aver visto Flowers. Lì c’è tutto Lindsay, è uno spettacolo che ha una grande importanza nella storia del teatrodanza, per i temi trattati e per il modo in cui li ha trattati. È una pietra miliare, uno spartiacque. Ma al di là di questo, credo sia anche il ruolo che più rappresenta Lindsay: “Io sono Divine” – diceva – “e potrei farlo fino alla morte”.

Lindsay, come testimonia nel documentario di Edoardo Gabbriellini, My Best Dance Is Yet To Come che ripercorre i momenti più intensi della sua carriera artistica, nasce con la terribile malattia del ballo di San Vito. Viene scartato dalla Royal Ballet School perché considerato inadatto alla danza, caratterialmente e fisicamente e questa sembra essere stata la sua fortuna… che cosa rendeva unica, avanguardista e anticonvenzionale, nuova la sua danza?
La libertà. Totale. La stessa che ci esortava a ricercare, come danzatori o come studenti, durante i workshop. Diceva che – con il ballo – abbiamo la fortuna di poter trovare la nostra libertà chiudendo gli occhi e abbandonandoci alla musica: la musica ci porta in un altro mondo. Che abbiamo la responsabilità, con la nostra danza, di liberare il pubblico da qualsiasi freno, che sia psicologico, fisico, politico… di qualsiasi tipo. Lindsay insisteva molto su questa responsabilità dell’artista. Dobbiamo prenderle lo spettatore, sollevarlo – che non vuol dire offrirgli lustrini e canzonette – e portarlo nel nostro mondo. Il pubblico deve uscire dal teatro cambiato. In fin dei conti, si tratta proprio della funzione catartica del teatro stesso: trasportare altrove, liberare e purificare.

For You’ è il motto di Lindsay Kemp, profondamente convinto, appunto, di avere la responsabilità di dare gioia allo spettatore, alla ricerca continua di una connessione con il pubblico. Lo ribadiva anche nei suoi workshop, ai quali teneva particolarmente. Dopo questo anno così difficile, quali sono i progetti futuri della Compagnia?
Sono le parole che usava più spesso. E non erano riferite solo al pubblico ma anche a chi è accanto a te in scena. Diceva che bisogna danzare sempre come fosse la prima volta, con l’entusiasmo di un bambino, accogliendo ogni singolo gesto come un miracolo. Ma soprattutto come se fosse l’ultima, con generosità, senza risparmiarci. Questo il pubblico lo percepisce. Per Lindsay l’insegnamento è stato una parte fondamentale della sua vita. Traeva ispirazione anche dai ragazzi. Nei suoi workshop (a conclusione di quelli più lunghi, per esempio, negli anni, sono nati alcuni spettacoli come Romeo e Giulietta) ricordava sempre che la danza non è un fatto privato: è un’arte che deve coinvolgere. Guai ai danzatori che si esibiscono solo per dimostrare tecnica e virtuosismi! Mi sono chiesta spesso come avrebbe vissuto questa pandemia, l’impossibilità del contatto, la chiusura delle scuole di danza… io sono stata ‘costretta’ a qualche incontro virtuale ma le lezioni in presenza sono un’altra cosa. Pochi giorni fa, in occasione della Giornata Mondiale della Danza, sono tornata a danzare a Corinaldo, nelle Marche e ora progettiamo nuove date: la vivo come una rinascita. Vedere gli occhi del pubblico, desiderosi di spettacolo, va oltre ogni mascherina. Io e tutta la Compagnia, con David Haughton, Ivan Ristallo e James Vanzo, teniamo molto a “Kemp Dances” che si è trasformato in “Kemp Dances Ancora: è un omaggio a Lindsay (che appare sul palco grazie ad alcuni video). La nostra missione è continuare a portare in scena la sua danza. Qui ballo i suoi assoli, Lindsay mi ha fatto questo grandissimo regalo. La sua morte è stata improvvisa ma un anno e mezzo prima, mentre eravamo in sala prove, mi disse: “Voglio che impari e provi anche i miei assoli”. Per me è stato un momento di grande gioia ma anche di turbamento, lui però ha saputo subito sdrammatizzare. Lo sento vicinissimo quando insegno ma quando provo e danzo i suoi assoli, ancora di più.

Dal 3 maggio la mostra dedicata a Kemp

Da lunedì 3 maggio, a Monsummano Terme, è allestita la mostra “Lindsay Kemp – Dream Dances, le immagini che hanno creato il mito“…
La mostra nasce all’interno del progetto L’uomo che cadde su Monsummano Terme, citando L’uomo che cadde sulla Terra (film del ’76 di Nicolas Roeg, tratto dal libro di Walter Tevis. Il protagonista, Newton, un alieno caduto sulla Terra, lo interpretò David Bowie, ndr): nel ’67, la prima apparizione di Bowie in Italia fu a un festival canoro proprio a Monsummano, in Toscana. Lì gli hanno anche dedicato un parco. La mostra durerà fino a ottobre. Il progetto, voluto da Rita Rocca, giornalista e conoscitrice di David Bowie e Lindsay Kemp, prevede un’esposizione che celebra questo incontro geniale e la loro collaborazione artistica. È una mostra che mette a confronto Bowie e Kemp, sottolineando l’influenza che Lindsay ha avuto sull’artista inglese, con foto che li ritraggono in atteggiamenti simili, dal trucco ai costumi (come quelli a ragnatela usati poi nello Ziggy Stardust Tour, coreografato dallo stesso Lindsay). Ci sono molte fotografie di Richard Haughton, abbiamo cercato nel nostro archivio e abbiamo scelto anche quelle più inedite. Durante il lockdown, nell’impossibilità di provare e vivere il teatro, insieme a David Haughton e alla nostra collaboratrice Paola Autera, abbiamo aggiornato il nostro sito – disegnato e voluto proprio da Lindsay! – con foto, informazioni sugli spettacoli storici e progetti futuri: vogliamo che sia davvero uno strumento di divulgazione, per danzatori, studiosi e appassionati. Nel 2019 è nato anche il Premio Lindsay Kemp: ci teniamo molto, speriamo di poter organizzare presto una nuova edizione.

Dracula”: uno spettacolo – l’ultimo – pensato e mai rappresentato. Vedrà mai il palcoscenico?
È ispirato a Nosferatu, film di Murnau e poi a quello di Herzog, che a sua volta si rifa a Murnau (torna l’influenza del cinema in Lindsay!). Ha sempre pensato che potesse interpretare questo personaggio. Il titolo cambiò in corsa, diventò Dracula’s Kiss. Il morso di Dracula si trasforma in bacio: il suo è un Nosferatu nostalgico e romantico, vittima della sua malattia, non è un mostro. Stava per andare in scena nella Stagione Lirica di Lecce, avevamo già fatto le audizioni per il cast, con le videoproiezoni di Theo Eshetu, le musiche originali composte da Sergio Rendine e Arturo Annecchino. Alla viglia della partenza, però, per problemi burocratici e tagli, lo spettacolo è stato cancellato. Non so se andrà mai in scena, non c’è Nosferatu… Ma mai dire mai…

Lindsay sapeva di aver vissuto una vita spettacolare. “I danzatori non vanno in pensione, i danzatori muoiono”, ha detto. E alcuni – Kemp è tra questi – lasciano anche una grande eredità: per te, qual è la sua?
Quello che ha lasciato a me è lo stesso che ha lasciato al pubblico. È quello che vedo negli occhi dello spettatore, la stessa gratitudine per “Flowers”. Lindsay Kemp lascia un segno nella storia della danza e del teatro e nella storia della musica (con la nascita del Glam Rock e del teatro rock). Ma anche nelle persone che non hanno nulla a che fare con questo mondo. È impossibile scindere l’artista dalla persona, il suo ‘For You’ lo leggevo persino negli occhi della gente che incontravamo al mercato. Chiunque lo abbia conosciuto o abbia lavorato con lui, può dire di aver imparato qualcosa: concetti generali di quella che io chiamo la ‘poetica di Lindsay’ – la generosità, la cura del dettaglio, l’intrattenimento – ma anche insegnamenti pratici, come il trucco o il saper tingere una stoffa. Spesso gli veniva chiesto se, con le sue performances, volesse scioccare: “No! Sono un cantastorie, voglio raccontare” – rispondeva – “e lo faccio a modo mio, senza barriere. Anche stando fermo. Parlando, cantando, dipingendo. Ma soprattutto, danzando”.

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