No, non può essere un destino il calcio pronto a colpire la mia faccia e mio figlio sbattuto a terra, una gravidanza indesiderata e un padre che abusa della mia bambina, sposare Dottor Jekyll che tra le mura di casa si trasforma in Mister Hyde, sotto i miei occhi attoniti; non può essere un destino restare segregata in casa sino a morirne, non riconoscersi più dietro il volto coperto di lividi. No, non può essere un destino vergognarsi e nutrire sensi di colpa per colpi subiti, perdere la propria dignità, restare sola.

Queste le parole che potrebbero essere pronunciate da ognuna di noi, da ogni donna, da ogni nostra sorella, parole che risuonano come un grido di dolore e una richiesta di aiuto che non possono restare inascoltati, perché il marchio a fuoco impresso sulla pelle di troppe donne fatto di violenza e disperazione non rimanga un destino eterno ed indelebile.

Di violenza maschile contro le donne, oltre gli stereotipi, ci racconta Lella Palladino nel suo ultimo libro, Non è un destino (2020, ed. Rosso e Nero).
Sociologa, esperta in tematiche di genere, impegnata da sempre nella prevenzione e contrasto della violenza maschile contro le donne, Lella Palladino è anche fondatrice della cooperativa sociale E.V.A. che gestisce in Campania Centri antiviolenza con Case Rifugio per donne maltrattate tra cui Lorena a Casal di Principe, centro realizzato all’interno di un bene confiscato alla camorra con un valore aggiunto, Le ghiottonerie di Casa Lorena, impresa sociale finalizzata all’inserimento lavorativo di donne in uscita dalla violenza attraverso la produzione di confetture e catering, ed è stata anche presidente dell’associazione D.i.Re, donne in rete contro la violenza.
Non basta: è coordinatrice di diversi progetti europei e programmi di formazione integrati per operatori sociali, sanitari e di giustizia, membro del Forum Disuguaglianze Diversità e ha preso altresì parte ai lavori del Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2017-2020, in qualità di componente nominata del Tavolo Tecnico istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri-Dipartimento per le Pari opportunità.

Non nascondo di avere iniziato la lettura del libro con mani tremanti: temevo di trovare il racconto sensazionalistico di violenze subite, con il rischio di oscurare ogni donna abusata e il suo vissuto, il dolore e la rinascita. E invece no, trovo ogni donna integra nella sua dignità, nella sua forza, nella sua capacità a resistere, nei suoi retaggi e nelle ricadute, nel senso di colpa che si amplifica dentro una solitudine troppo rumorosa, come direbbe Hrabal, dentro cui trovare prìncipi che diventano orchi e principesse violate e segregate.

Sono storie realmente vissute e condivise, nomi che ritrovi dentro articoli di cronaca, madri con figli al seguito, giovani donne, mogli mature che hanno avuto il coraggio di rivolgersi ad altre donne a cui chiedere la forza per uscire fuori da violenze inaudite, una forza calpestata e in loro affievolita. Donne che hanno chiesto soccorso a donne che possono aiutarle, perché le riconoscono e sanno ascoltarle, le prendono per mano per insegnare loro a dare i primi passi, per uscire da una vita svilita e umiliata e conquistare un posto nel mondo, grazie al dono della consapevole ed empatica reciprocità. Donne abbandonate dentro la loro solitudine troppo rumorosa, che in molti fanno finta di non sentire, finché vigerà il principio secondo cui ciò che accade dentro le mura domestiche non è affar mio, avallato da troppi assessorati, assistenti sociali, scuole e magistrati.

No, non è sempre una devianza la violenza di genere, fisica e psicologica, nasce piuttosto da uno stereotipo radicato anche tra damerini insospettabili, dentro padri amorevoli carnefici delle proprie compagne e dei propri figli, persino in donne che si svincolano dall’abbraccio dovuto ad ognuna di noi e finiscono con alimentare la stessa rete di omertà, violenza, condanna e pregiudizio che dovrebbero combattere.

Tina e il padre orco, la forza di Lia, Francesca e la sua rinascita, Caterina e il suo incubo, Vittoria e il suo terribile bellissimo marito, tutte con un unico comune denominatore, il coraggio, tutte nel preludio del cammin di loro vita, a ritrovarsi in una violenza oscura, per dirla quasi con Dante, intenzionate a riveder le stelle, seppure tra mille difficoltà, ripensamenti e ricadute.

E ancora Irina e il suo principe carceriere, Paola e il suo stimato marito, a dimostrazione che la violenza maschile contro le donne non è sempre e solo una devianza, e che anche gli esseri umani più insospettabili e persino stimati possono trasformarsi in efferati Otello, giustificati da un pensiero politico e pseudoreligioso sempre più dilagante che elogia il marito padrone, la donna oggetto, la pornografia più bieca, la suddivisione dei ruoli secondo stereotipi beceri e pericolosi, il disconoscimento di diritti acquisiti come l’aborto, la giustificazione della violenza di stampo sessuale e l’elogio della famiglia tradizionale, anche quando consumata dal morbo della violenza.

La Palladino ci ricorda però nel suo libro che vale sempre la pena lottare, anche da parte di chi aiuta donne meno fortunate, spesso irretite da un’ideale ancora oggi difficile da sconfiggere, quello dell’amore romantico sempre e comunque, schiacciate dal senso di colpa se non si è in grado di trattenerlo, costi quel che costi. Un sostegno e una lotta, quella dei Centri antiviolenza e delle Case Rifugio, raramente sostenuti da uno Stato troppo spesso assente, che disattende gli obiettivi sanciti dalla Convenzione di Istanbul, come riportato dal Rapporto Grevio (documento del Consiglio d’Europa dedicato all’Italia, pubblicato nel gennaio 2020, con la finalità di valutare l’attuazione di misure contro le violenze di genere nel nostro Paese) e non fa del sostegno alle donne abusate e maltrattate un’azione mirata, integrata e coordinata dai diversi attori coinvolti: politiche sociali, scuole, CSM, magistratura, sanità, forze dell’ordine.

Vale sempre la pena lottare e sostenere donne che vogliono uscire dal tunnel, principesse che hanno affrontato montagne alte e ripide quasi impossibili da scalare, vale la pena sempre se Angela, Rosaria, Sonia e Debora, seppure tra mille difficoltà, ce l’hanno fatta, ribadisce la Palladino.

Il problema è e rimane ancora il canone inverso, il lieto fine che non può e non deve essere conquista di poche grazie al sostegno di poche altre, gocce preziose in un mare sotterraneo di violenza ancora troppo profondo, ma un epilogo capace di trasformarsi in preludio, in grado di fronteggiare un sistema che soprattutto nei periodi di crisi e nelle fasi emergenziali, come il Covid19 docet, colpisce i soggetti più deboli, e tra questi noi donne, almeno fino a quando non si prenderà atto di quanto sia pervasiva la violenza intra-familiare e quanto siano radicati stereotipi, ingiustizie e disuguaglianze sociali, economiche e di genere nel nostro Paese.

E’ necessario un lavoro di prevenzione che supporti l’impegno di movimenti come Non una di meno e azioni come quelle dei Centri antiviolenza, perché la situazione è ancora oggi davvero drammatica per le donne e le bambine del nostro Paese, un dato di fatto che rende intollerabile la retorica politica, l’enfasi delle ricorrenze come l’8 marzo, le leggi avulse da una visione programmatica sistemica e coordinata da un’unica regia, che coinvolga i decisori politici, la formazione, il sistema giudiziario, il sistema socio-sanitario, le risorse economiche, le politiche sociali, i servizi di supporto e protezione.

Di certo non saremo noi donne ad arrenderci, sottolinea la Palladino: il lieto fine, epilogo e preludio insieme di questa lotta, continua ad essere una meta da perseguire, in attuazione dei quattro pilastri su cui si fonda la Convenzione di Istanbul e che devono divenire patrimonio condiviso anche nel nostro Paese: Prevenzione, Protezione, Punizione, Politiche Integrate, la cui attuazione potrebbe essere agevolata dall’arrivo delle risorse europee del Recovery Found, un’opportunità da cogliere anche per contrastare disuguaglianze, stereotipi e violenze di genere, se supportata da una profonda revisione culturale e formativa in grado di determinare un diverso approccio al problema. Lo dobbiamo a tutte le principesse che sono ritornate ad essere libere e a tutte quelle, ancora troppe, da liberare.  

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No, non è un destino

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