Siamo sul sentiero, siamo alla ricerca del verso e continuano le mie conversazioni, un dialogo poetico con le voci della poesia italiana. II poeta Giovanni Ibello (Napoli, 1989) vive e lavora a Reggio Emilia. I suoi versi sono stati tradotti in sei lingue tra riviste, lit-blog e volumi antologici di poeti italiani all’estero. È direttore della rivista Atelier dove cura una rubrica di traduzioni poetiche. Dirige per Terra d’ulivi edizioni la collana di poesia Deserti luoghi.

Il poeta, la poesia. La poesia accade, il poeta come testimone di un luogo oltre il tempo in cui il verso scorre libero, come direttore di Atelier che sguardo hai verso i versi altrui?
Mi sbaglierò, ma non ho mai creduto all’icona del poeta testimone di un tempo, in particolare del suo, o di un luogo. So che in pochi la penseranno come me e naturalmente rispetto ogni opinione contraria. Credo, molto banalmente, che il tempo della poesia sia il tempo del “sempre” e del “mai”. Non che la poesia sia in qualche misura destinata a restare. Ma questo è un altro discorso che potremmo approfondire in altra sede. Il luogo della poesia, invece, è l'”altrove”. Come direttore di Atelier la messa a fuoco è per sua stessa natura differente: ho il dovere di campionare il contemporaneo. Al di là dei gusti personali, a prescindere da ogni discorso d’elezione.  

Dialogo poetico

La deriva egoriferita del moderno panorama letterario si trascina a volte in un gioco di specchi ingannevoli, la poesia non dovrebbe esser un atto di rottura, la politica del verso ha ancora senso?
Oggi vedo che in molti fanno della poesia un triste e cadente teatro, un modo facile per affermare il proprio ego o il proprio nome. Agli eventi sanno esattamente cosa dire, scelgono con cura il look, vengono tutti bene nelle foto. Ce ne fosse uno con la schiumetta alla bocca, gli occhi incendiari e i diavoli al culo. No, fanno del poeta un vero intellettuale. La domanda però, a mio sommesso avviso, è un’altra: può l’intellettuale essere veramente un poeta (e viceversa)? Ora, non so dirti esattamente il motivo preciso, ma penso al film Fortapàsc, quello dedicato a Giancarlo Siani, il giornalista napoletano che nel 1985 fu barbaramente assassinato dalla camorra. In una scena del film si vede il caposervizio del Il Mattino che, rivolgendosi al giovane cronista, prova a metterlo in guardia dalla potenza dinamitarda delle parole. Gli dice: “Giancà, ‘e nutizie so rutture ‘e cazzo”. Ecco, allo stesso modo mi viene da pensare che, parafrasando una vecchia intervista di Caproni, la parola può anche avere un segno negativo. Tu pensi che la poesia ti dia felicità, che ti determini nella società, che ti ascriva un ruolo specifico. Niente di più falso. La poesia è ‘na rottura di ca***. Un poeta degno di questo nome – ammesso che il poeta esista – se ne fotte delle foto fighe, degli eventi, del presenzialismo sfrenato. Pensa solo a “portare a casa la pelle”, a come fare schifo il meno possibile. Mette in rima la propria solitudin e sa bene che in poesia le proporzioni del salvabile sono minime. Penso a Qōhelet: «Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo affrontato per realizzarle. Ed ecco: tutto è vanità e un correre dietro al vento».

Il poeta, la poesia

Il Giovanni poeta quando si scopre tale, quando il linguaggio poetico viene a bussare alle porte delle tue necessità espressive?
Stare nella parola poetica è stare dentro una dimensione patologica. La poesia non dà gioia e non si vive per la poesia: la poesia esiste perché esistere è nel suo destino. Il destino del “nome scritto sull’acqua”. La poesia è fisiologia e miracolo, ed è questo il paradosso. Dario Bellezza diceva che scrivere una poesia non è diverso dal mangiare, dal bere, dal dormire, ecc.  Ma è in qualche misura anche un prodigio, un’intima alleanza con il transeunte: c’è dentro un mistero di fede. Penso a una frase di Blanchot che sento a me molto affine: “Nessuno sa quello che scrive ma si inizia a saperlo scrivendo”. Sempre Blanchot, alla domanda “Dove va la letteratura” rispondeva dicendo: “Domanda sorprendente, ancor più sorprendente è il fatto che una risposta c’è ed è facile: la letteratura va verso se stessa, verso la sua essenza, che è la sparizione”. In questo senso posso ingenuamente affermare che la poesia accade per sparire. Come la vita. Provando a rispondere nel merito alla tua domanda, posso dirti che non mi scopro poeta, anzi, potrei dirti che non credo minimamente alla figura del poeta. Lo scorso 9 giugno, a Genova, durante la cerimonia del Premio Lerici Pea, ho detto queste esatte parole alla stampa. Il giornalista Rai mi guardava con aria interrogativa. Poi, a microfoni spenti, mi è stato detto: “Ma lo sai che hai vinto il premio letterario più antico d’Europa? E ci vieni a dire che non sei poeta, che il poeta non esiste…”. Vedi, quello che sembrava uno stucchevole eccesso di modestia era in realtà un mio libero convincimento (ammesso che si possa realmente essere convinti di qualcosa). Forse siamo attraversati da un momento estatico, cooptati dalla voce di un’antica sibilla. La poesia esclude il poeta e viceversa. Se davvero vuole esistere, un poeta, deve prima morire. 

Giovanni è un compagno veterano della musa poetica ma nel mio ondivago camminare voglio associare il nostro percorso a questi versi di un giovanissimo poeta e lasciare che sia la parola ad indicarci la via.

Gabriele Cioppa

‘’3:01’’

Svuotami,
delle scritte impresse
sul mio corpo.
Riscrivimi,
da capo come fossero
pensieri distratti.
Perdimi,
tra gli estremi
della tua carne.
Che da questi
Voglio farmi scavare.
Voglio osservare
La nuova forma
Del mio corpo inanime.

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