C’è modo di rendere maggiormente attuale un classico che rappresentandolo classicamente?
Le eccentricità di un usignolo (The eccentricities of a nightingale) è un testo di forte impatto psicologico e poetico di Tennessee Williams del 1962, rappresentato per la prima volta a livello professionale in Italia al festival di Napoli 2020, per la regia di Sara Biacchi, che si avvale della suggestiva traduzione di Masolino D’Amico.

La protagonista, interpretata con sorprendente immedesimazione dalla stessa Biacchi in un vorticoso avvicendarsi di legnosità e liquefazioni, è Alma Winemiller, una giovane nubile figlia di un pastore e di una madre ora vittima di follia, che fu al centro di un terribile scandalo. Destino fatale? Alma porta con sé, cercando di conviverci ogni giorno, i segni degli occhi della piccola cittadina in cui vive, che non le perdona nessun tentativo di essere completamente vinta ed incolore, come la sua realtà familiare la costringerebbe. La ragazza ride forte, canta in modo vistoso, sembra soffocare dai singulti, si circonda di una piccola comunità di anziani ed emarginati intellettuali che una volta la settimana leggono poesie. Il suo muoversi nel mondo alterna una originalità immediatamente bollata come isteria, alternando imprevedibilmente affettazione, spontaneità, autenticità e manierismo, mutuato forse, per la teoria dei neuroni a specchio, dalla piccola asfissiante comunità che abita. Canta bene e per amore del canto canta anche più forte del dovuto.

Parafrasando il testo, già la sua sopravvivenza stessa è esempio folgorante di quanta delicatezza sia necessaria a fallire in qualche cosa, ma, come se non bastasse, Alma si innamora del golden boy locale, un giovane medico affascinato e respinto insieme dalla sua libertà di sentimento ed espressione, preda di una madre che aspira per lui ad un matrimonio borghese, quanto più possibile rassicurante, con una nuora insulsa, benestante e controllabile, e non fa che instillare nel rampollo la continua insinuazione che Alma sia destinata a divenire folle come sua madre, reiterandone le sorti, come accade sempre in un piccolo borgo chiuso, ma non solo. Eppure ad essere vittima della cova materna è evidentemente lui, e non risulta poi così semplice o scontato comprendere chi controlli l’usignolo, così, mentre le ragazze a lei vicine contengono con cura le proprie palpitazioni, e accettano di venire contenute a debita distanza – che le regole del distanziamento sociale impongono anche alla regia di Biacchi – Alma nutre pubblicamente, con inesausto amore, branchi di uccellini e si dichiara disponibile all’amato anche per una sola notte, un’ora che valga una esistenza intera.

D’altro canto l’amore che si nutre di distanziamenti come potrebbe non beneficiare di un costante supporto video?

Ma un focolare acceso solo su uno schermo può scaldare una fredda stanza d’albergo dove giungono, tra varie traversie, due cuori dotati di temperature interne tanto differenti? Impossibile non accorgersi di come il tema resti scopertamente attuale, o forse persino tragicamente rinnovato dalla diffusa ansia conformista di ritorno che ci affoga.

Eppure, tra la strana storia di un serpente che ingoia una coperta e un paese incorniciato da alberi innevati come candelieri di cristallo, è alla follia, ai sorrisi inopportuni, ai tentativi di vita scoperta che scoppiettano gli applausi a scena aperta e le risate del pubblico in sala.

Così, malgrado il testo e le stesse note di regia parlino di una scommessa perduta e di un inevitabile fallimento esistenziale, quella svaporata Alma in panchina, che evoca platealmente Blanche DuBois, che evoca a sua volta il tragico destino della sorella stessa dell’autore, più che alle grandi pazze della letteratura, del cinema, del teatro a tema, più che al cuculo, a Frances, alle mammine care, alle – pur indimenticabili – martiri di Von Trier, questa Alma mi ha richiamato invece un Forrest Gump, stanco, ingenuo, amareggiato, ma coerente  e irresistibile nella sua marmorea, apparentemente inscalfibile autenticità, non una vittima ignara, non una donna perduta e vinta dalla storia. Forse grazie alla dimensione a tratti surreale e provocatoriamente contemporanea a incrinare sottotraccia il bel canto della scena, dei costumi, di una recitazione consumata, che Biacchi ha saputo donare al testo.

Un classico rappresentato classicamente, ma con le screpolature adatte a creare finestre inedite alla superficie della messa in scena, perché dietro ogni lettera quello che resta addosso, che ha sparso come petali sorrisi in sala, è sempre il sottotesto. E se vi ho letto qualcosa che non c’era, d’altronde è perché gioco regolarmente nella squadra delle Alme, perché sono le visionarietà dell’essenziale a darmi ancora un po’ di senso.

E aperta resta la domanda se la rispettabilità di Babbo Natale sia data da sua moglie o sia piuttosto il contrario.

Con
Sarah Biacchi Alma Winemiller,
Riccardo Eggshell John Buchanan
Alessandra Frabetti Signora Buchanan
Paolo Perinelli Reverendo Winemiller
PAILA PAVESE nel ruolo della signora Winemiller
Una produzione Sicilia Teatro

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