E’ un esordio convincente quello di Kristine Maria Rapino, quarantenne scrittrice di Chieti già impegnata in attività di docenza di scrittura creativa presso la scuola Macondo nel centro di Pescara.

E’ un esordio convincente soprattutto per la qualità della scrittura che nell’arco delle oltre trecento pagine ha solo pochissimi cedimenti. Ed è convincente anche nella capacità di misurarsi con un tipo di storia che, nella narrativa italiana contemporanea, ha già avuto diversi predecessori e che, pertanto, avrebbe potuto spaventare chiunque. Pensiamo a un nome su tutti, quello di Donatella Dipietrantonio.

Ecco allora che Kristine Maria Rapino si butta nella mischia, forte della benedizione e del sostegno della casa editrice Sperling & Kupfer, e pubblica Fichi di marzo (pp. 338, euro 17:00).

Fin dal titolo si coglie subito che l’elemento centrale è quello dell’ambientazione contadina, anche se letta in controluce attraverso lo scorrere del tempo, che viene raccontata attraverso la forza della sorpresa: una, due tante sorprese. Per chi conosce questa realtà, i fichi di marzo sono un evento praticamente impossibile e l’albero che riesce a produrli rappresenta una vera sorpresa forse addirittura un evento magico.

In un ambiente che potremmo pensare statico e pigro, l’autrice inserisce felicemente il racconto di una piccola fabbrica di produzione della pasta dando inizio a un gioco di simboli e metafore tra il lavoro, la produzione e lo sviluppo economico con il sacro rito del pranzo di famiglia, intorno a un piatto di pasta, appunto.

Dal 1907 il pastificio Guerrieri, dal nome della famiglia che lo ha costruito, è un riferimento per i singoli componenti del nucleo famigliare e per la gran parte degli abitanti della zona.

Le vicende del pastificio attraverseranno tutta la prima parte del secolo ventesimo. Conosceranno la miseria fisica e morale della guerra e la brutalità del fascismo. Ma quello che metterà in crisi la compattezza del nucleo familiare sarà l’accelerazione che viene conferita dalla modernità irrompente. I figli, soprattutto, rappresentano la misura della forza di questi cambiamenti. Nessuno rimane più nella casa in cui è cresciuto. Nessuno si accontenta.

Arturo diventa zoologo. Eva diventa una manager di un certo successo e Diamante, la seconda sorella, è troppo incerta, combattuta con se stessa e insofferente da non riuscire a continuare il suo corso di studi all’università e rimane, temporaneamente, tra le mura del pastificio.

Fin qui, due terzi del racconto di Kristine Maria Rapino. Poi, accade una nuova sorpresa: Giordano Guerrieri, l’amato e rispettato capo famiglia, come si sarebbe detto una volta, l’inventore del pastificio, muore.

Allora inizia un altro racconto i cui contenuti non è bene anticipare per non rovinare la lettura a chi voglia seguire le vicende di una famiglia contemporanea tradizionale molto meno solida di quello che si potesse pensare.

E’ proprio in questa seconda parte che possono emergere alcune perplessità sull’equilibrio narrativo del libro.

La sorpresa anche se poco originale, è sistemata in modo adeguato nel tessuto narrativo che però paga due elementi di debolezza. Il primo è legato all’aspetto simbolico dell’avvenimento, con le sue conseguenze anche in termini di riflessione sociale per una dirompenza che è costituita più dalle rigidità ottuse del nucleo familiare che dal fatto in sé. Il secondo aspetto è invece dovuto alla scelta dell’autrice di inchiodare il lettore su un fatto che non può in alcun modo considerarsi centrale nel romanzo e che invece sembra assumere un’importanza un po’ sproporzionata.

Questione di dosaggi. Questione anche di emozioni che nel prossimo futuro un talento come Kristine Maria Rapino riuscirà sicuramente a padroneggiare un po’ meglio (non serve poi molto) nei prossimi libri che siamo ansiosi di leggere.

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