Mi sono imbattuto in un cantante emergente. Si chiama Cecè Tripodo e ha 28 anni. Tenete presente che non sono un critico musicale, anzi, come ben sa chi anni fa tentò di costruirmi una playlist per il mio profilo su Rewriters, ho gusti che definire basici è già un complimento. Però a modo mio sono un osservatore della società e appartengo alla generazione di quelli che – per citare il professor Paolo Crepet – «vogliono essere più giovani dei loro figli».

Morale: qualcosa nella musica, nella voce e nei ritmi di questo giovane mi ha spinto ad ascoltare e riascoltare le sue canzoni. E ho capito.

Ho capito quello che i miei coetanei non vogliono capire

Il giovanilismo, ha ragione Crepet, è una malattia contemporanea. Ai miei tempi si parlava di tardoni, oggi abbiamo mollato il termine perché offensivo e perché de facto è raro trovare un sessantenne che dimostri appieno la sua età. Il che è segno di progresso, senza dubbio, ma cessa di esserlo nel momento in cui alla legittima ambizione verso una vecchiaia lunga, attiva e sana, si sovrappone la presunzione di farsi portatori di pensiero giovanile. Che semplicemente non è possibile.

Chi ha la mia età, garantito, potrà sì fare cose da giovane, ma a pensare come un giovane non riuscirà mai. Prendete me, per esempio. Il mese prossimo compio 59 anni. Mia figlia ne ha 16. Fra me e lei passano la bellezza di quattro generazioni (ogni generazione equivale a un decennio). Quattro generazioni, non so se mi spiego. Il giorno e la notte. La distanza tra Pacelli e Wojtyla, o, per essere più attuali, fra Montini e Bergoglio. Tra sedia gestatoria e papamobile. Tra il nos maiestatico e «la fr*ciag*ine».

Allora io potrò pure passare le mie giornate in jeans, sneaker e magliette sdrucite (non lo faccio), aprire un profilo TikTok o Be Real (idem), inneggiare al cringe o allo snicciare (bel neologismo dall’inglese snitch con cui i teenager definiscono l’atto di fare la spia), ma sotto questa superficie non sarei in grado di mettere nulla. Nella mente di un ragazzo non posso entrare, e non riuscirei nemmeno volendolo, neanche provandoci un milione di anni.

Va da sé che per comprendere i giovanissimi, più che scimmiottarli, serve scoprire cos’hanno in testa. E per scoprirlo occorre ascoltarli. Con spirito positivo, acritico. Vuoi vedere che, chissà, noialtri responsabili del crollo demografico e di trentatré-anni-leggansi-trentatré di crescita zero impariamo pure qualcosa?

I brani di Cecè Tripodo

La mia riflessione parte da una canzone in cui Cecè duetta con Marinella Vescovini. S’intitola Tara (la pirata), parla di emancipazione femminile attraverso una figura di donna che sceglie di liberarsi dalle catene e lo fa nel modo più simbolico: viaggiando su un galeone per mare. Tara non rinuncia a cercare spasmodicamente la propria liberazione e gode per ogni singolo attimo di libertà che riesce a procurarsi. Un verso ha attratto la mia attenzione.

Che se lei non fosse questo finirebbe sul fondo di quel lastrico / Con l’estremo bisogno di ricovero, senza mezzi di sostentamento autonomo“.

La mia è stata una generazione di censori. Di bacchettoni dediti al piacere morboso di giudicare. Le donne che si aggrappavano a mariti fedifraghi o pure violenti (erano anni in cui la violenza domestica non finiva sui giornali) venivano apostrofate come avide e peggio. Nessuno considerava la paura. La paura di finire sul lastrico a seguito di un divorzio che le avrebbe deprivate di… tutto.

Sei tornato a chieder grazia al mio palato martoriato / Ora ingollo un altro assaggio e poi giurami sei sazio / Voglio andare a riposare, senza il cibo a che stordire“.

Questi altri versi sono tratti da Sei tornato a batter cassa (gusto, gusto maledetto), che parla di disturbi alimentari. Qui Cecè descrive l’ossessione per il cibo che colpisce sia la mente sia il corpo. La paura del giudizio sociale spesso porta le persone che soffrono di disturbi alimentari (lui compreso, la canzone è drammaticamente autobiografica) a non parlarne e isolarsi.

Ricordo la sentenza preconcetta dei tempi miei: i bulimici – si diceva – scelgono di esserlo, dunque sono responsabili della loro condizione. Un po’ come ancor oggi i fanatici affermano che quella dei gay o delle lesbiche sarebbe una scelta, equivalente alla selezione di un modello d’auto o di abito.

Giacomo è innamorato di Francesco ma non sanno che nel mondo / nel mondo quello infame puoi amare anche te stesso basta che / non ami il tuo stesso sesso“,

canta ancora Cecè in Ipotesi di testo dove, camuffandosi da gabbiano e facendosi scandire dai due soli accordi di Do e Sol, racconta l’indifferenza, l’apatia, l’incapacità di comprendere.

Ci ho messo del tempo, educato come sono al presunto assioma secondo cui se non capisco è perché l’errore sta nel messaggio, ma alla fine ci sono arrivato. Dove le giovani generazioni vincono su di noi, e per “vincono” intendo proprio che ci danno cappotto, sta nell’aver intuito che i messaggi vanno compresi, e che comprenderli è esclusiva responsabilità di chi li riceve. Compito arduo, perché ognuno ha un codice, un linguaggio, una vox clamantis in deserto, e decifrarla significa investirci tempo, energie, empatia. Roba da fuggire come la peste, in un’era di disimpegno. Meglio la scorciatoia del giudizio spiccio, il narcisismo del salire sul piedistallo, la presunzione del comprendere per dono divino.

Poi non ci lamentiamo se l’Italia è ferma da decenni. Il nostro orizzonte è zeppo di falliti, dove per falliti s’intendono quelli che non solo non ce la mettono tutta, ma pure pretendono d’averla vinta senza fare alcuna fatica.

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