Halime Murati: proteggiamo il passato con “Di te amavo me”
Classe 2002 e in bilico tra la cultura occidentale e quella orientale, Halime ci racconta di sé e della sua prima opera: “Di te amavo me”.
Classe 2002 e in bilico tra la cultura occidentale e quella orientale, Halime ci racconta di sé e della sua prima opera: “Di te amavo me”.
Halime Murati ha vent’anni ed è una studentessa di lingua araba e russa. Le piace avere mille cose da fare e quando è libera, si trova altri impegni, non sta mai ferma. È albanese della Macedonia ed è profondamente innamorata della vita e della sua cultura. I suoi genitori, come lei, hanno sempre vissuto questa dualità: hanno frequentato le scuole albanesi, studiando il macedone come seconda lingua e l’inglese. Nonostante le divergenze tra le due culture, i suoi genitori hanno avuto modo di crescere attorno alla loro gente, fortuna che Halime non ha avuto.
“È un privilegio crescere all’interno di uno Stato in cui la tua mentalità è uguale a quella della maggioranza. Non devi spiegarti, non devi fare delle rinunce, la pensiamo tutti in modo simile. In Italia, spesso, mi sono sentita un pesce fuor d’acqua, perché sì, mi sono integrata benissimo, ma rimango comunque fiera della mia cultura, non ho mai rinunciato ad essa, ma si deve sempre bilanciare. Mi sono accorta di questo scrivendo il libro”.
Empatica, introspettiva e altruista, queste sono le parole che la descrivono meglio e proprio esse sono concetti fondamentali della religione islamica:
“La mia religione mi insegna tanti concetti che vengono ripresi dalle filosofie orientali, che sono anche di moda adesso. Credo molto nel volere di dio, che oggi, si chiama karma…anche l’altruismo è fondamentale, perché, il bene che fai, prima o poi, torna indietro. Bisogna sempre essere gentili con l’altro”.
Nel libro, appare evidente il suo orgoglio nei confronti della sua cultura, quando racconta dei caffettani, delle stoffe coloratissime con fantasie floreali, della musica che ci porta via con essa. È bello vedere come i suoi occhi si illuminano ai soli racconti sulla sua terra, del suo rapporto con Dio, del suo modo di vedere e praticare la fede.
Proprio la differenza culturale è il filo rosso del libro, questo eterno sentirsi come un “mango piantato in Trentino”, che Halime ha vissuto sulla sua pelle. La sua religione le impedisce di fare molte cose, ma per lei non è un limite, perché lei crede e applica la sua fede.
Capita, quindi, di non ritrovarsi nelle scelte fatte dagli altri. Proprio grazie alla scrittura, Halime riesce a creare una realtà parallela dove i motivi culturali non influiscono sulla sua vita, sulle sue scelte e in quelle degli altri.
La passione per la scrittura è iniziata alle medie, perché con essa ha trovato un’amica, un supporto, un rifugio.
“Sono sempre stata matura per la mia età e non mi sentivo pari alle persone attorno a me. Mi sono ritrovata nella scrittura perché puoi crearti una realtà in cui sei totalmente padrone di quello che succede”.
Prosa e poesia, per Halime vanno di pari passo: “La poesia ha la fortuna di essere più diretta, usando meno e, forse, ti fa capire di più della prosa” e continua: “So esprimermi meglio tramite la poesia, mi piace la ricerca della parola giusta. La poesia mi ha salvata durante le noiosissime ore di lezione al liceo e continua a salvarmi”.
“Per assurdo, grazie alla scrittura io riesco a muovere il mio personaggio come voglio e faccio cose che, nella vita reale, non farei”
Il bello della scrittura è riuscire a fare delle esperienze, senza farle davvero. Prima che le parole vengano scritte su un foglio c’è l’immaginazione. Halime pensa così forte, che poi, è come se avesse davvero vissuto certi momenti e certe fantasie, senza peccare.
“Io amo pensare così fortemente a qualcosa, perché poi, dopo anni, la memoria inizia a farci qualche scherzo e non riusciamo a distinguere la fantasia dalla realtà. La mia immaginazione è così grande che, mi convinco di aver fatto qualcosa, così tanto da pensare che sia successo veramente”.
L’idea di scrivere un libro è nata durante le superiori: “prima scrivevo su dei quaderni, quando ho comprato il portatile mi si è aperto un mondo. Ho partecipato a dei concorsi e ho scritto un libro alle superiori, in cui adesso, non mi rivedo più, sono molto cambiata da allora”.
“Di te amavo me” nasce dalla realtà, profondamente intrisa di immaginazione:
“L’anno scorso ho comprato un libro sui dialoghi, voleva approcciarsi ad essi perché, secondo l’autrice, essi rallentano la lettura, anche se scrivere dialoghi è difficile. Ho pensato a due persone che dialogano, ma che, in realtà non sanno farlo. Due persone che si amano, anche se non riescono a farlo”.
Ed è così che Halime prova a contattare le grandi case editrici, dalle quali ha ricevuto solamente delle mail automatiche in cui le si chiedeva di aspettare. Tramite un link, ha trovato la sua attuale casa editrice, Dialoghi Edizioni, la quale le ha dato modo di pubblicare il suo primo libro.
La particolarità della sua opera sta nel non dare alcun nome ai protagonisti, alcuna connotazione fisica, dando al lettore il privilegio di giocare con la propria fantasia, immaginandoseli come meglio crede.
C’è una lei e c’è un lui e non sono due persone normali: sono due artisti. Quando due artisti stanno insieme è uno scontro tra titani. Entrambi cercano di esprimere il loro mondo attraverso l’arte e per questo non riescono a capirsi. In tutto il libro si percepisce la tensione che c’è tra i due, come se di lì a poco sarebbe potuta scoppiare una bomba, nonostante amino l’uno l’arte dell’altra.
Hanno entrambi tanto da dire, ma non riescono a comunicare.
Halime scrive di due persone diverse da lei: loro turbolenti e tormentati; Halime calma, pacata. Preferisce il dialogo al litigio:
“Non darò mai la priorità alla mia rabbia, tendo a silenziare la rabbia e parlare con calma quando qualcosa non va”.
Lei si trattiene sempre, è come se avesse tirato il freno a mano, per poi liberarsi di colpo e trattenersi di nuovo. Lui è ancora più introverso di lei, è sfuggente, non viene compreso e non si comprende.
“È capitato che dei lettori mi chiedessero se certe cose scritte nel libro le abbia vissute veramente ed è quello il bello: non sai dove la realtà si arresta, per fare posto alla finzione”
A proposito di questo, la frase che più ispira l’autrice è dello scrittore Milan Kundera:
“I personaggi del mio romanzo sono le mie possibilità che non si sono realizzate”.
Durante l’intervista, tra le varie domande scomode da me proposte, il climax è stato il titolo stesso del libro:
“Micol, hai trovato il paradosso del libro. Lei ama lui alla follia, però lei non ama sé stessa con lui, lei lo ama così tanto lui, da volerlo diverso nei suoi confronti. Lei è cambiata totalmente per lui, mentre lui continua ad usare i colori freddi che lei odia. Non ha fatto abbastanza.”
Si conclude, quindi, che la sua opera sia nata dal profondo amore per quello che loro avrebbero potuto essere. Il libro può riassumersi con questi brevi, ma incisivi versi:
“Mi chiedo se saremo mai felici.
La mia vocina interiore
dice “no”.
Ma io faccio rumore
e mi ripeto “non lo so”.
Lei è un eterno “vorrei, ma non posso”, lei lo ama così tanto da vedere solo ed esclusivamente ciò che avrebbero potuto rappresentare. Lei cambia totalmente per lui, lei rinuncia alla sua famiglia per lui, ma sa che questa non sia la cosa giusta da fare. Lei non descrive positivamente la sua storia d’amore con lui, eppure sono innamorati.
Proprio alla fine del libro si raggiunge la consapevolezza e si affronta il nucleo centrale: l’accettazione del ricordo e la liberazione da esso, racchiudendolo nel cuore.
“Bisogna far pace con il passato e con i ricordi. Il passato non si può cancellare, io non ti cancello, noi siamo stati insieme. Secondo me ci devi pensare così tanto e così forte da farti venire la nausea. Bisogna piangere per le cose che finiscono, perché erano belle. Accettare quello che è stato e trovare la forza di andare avanti senza rinnegarlo”.
Più va avanti, più lei scopre se stessa e si libera dell’idea di lui. Proprio alla fine, si scopre il motivo per il quale la relazione non può andare avanti: la diversità culturale. Lei capisce che il finale migliore sia quello di far vivere lui solamente nei suoi ricordi e “non è quello l’angolo più bello del mondo in cui incontrare una persona senza farle del male?”. E si rimane così, con i ricordi dolci-amari, tutelati, protetti, vissuti e si cerca di andare avanti.
“Halime, sei fiera di te stessa?” le ho chiesto, tra una chiacchiera e l’altra.
“Io sono contentissima di tutto quello che ho fatto, ho imparato dagli errori. Penso che gli errori non siano veramente errori quando sono stati fatti in modo inconscio. Alla me del futuro voglio dire di fare come hai sempre fatto, di viverti tutto e di cogliere ogni occasione, di sorridere a tutti”.
I suoi progetti per il futuro vedono un nuovo libro: “Dovunque andrò quest’estate – forse in Giordania – il mio portatile sarà con me. Voglio tornare a casa con un nuovo libro, certi posti non possono non ispirarti”. Ciò che si augura è di trovare una persona con la quale costruire una casa e una famiglia, essere felice e far trascorrere il tempo nell’attesa della vera vita.
“Circondatevi di persone intraprendenti e creative, vi aiuteranno a dare forma ai vostri sogni, insegnandovi a crederci”
È questo ciò che Halime augura a tutti noi della Generazione Z e ai lettori di Rewriters. Io, invece, spero che lei non perda quella luce negli occhi ogni volta che parla di sé stessa, della scrittura, della sua fede e della sua idea di amore, mai.