Da qualche giorno le timeline di tutti i social network sono invase da mani protese che esibiscono scritte variopinte DDL ZAN. La campagna #DIAMOCIUNAMANO, promossa da Vanity Fair, ha totalizzato numeri da record, attivando influencer, giornalisti/e, pop star, attori e attrici.
La mobilitazione, dal basso, esprime lo sdegno e le perplessità per l’incapacità del potere legislativo di far arrivare a destinazione l’iter del disegno di legge contro l’omotransfobia che reca la firma di Alessandro Zan, parlamentare del Partito Democratico e attivista LGBT. La sorte dei vari disegni di legge che si sono sinora avvicendati su questo tema, nel corso delle legislature, è stata grama.

Il primo capitolo della storia risale al 25 giugno 1993, giorno in cui fu convertito in legge il cosiddetto decreto legge Mancino, dal nome dell’allora Ministro dell’Interno, esponente della DC, strumento legislativo volto alla repressione dei crimini d’odio e dell’incitamento all’odio. La legge nacque monca perché riferita esclusivamente a “motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, quasi come se nel 1993 non si avesse contezza esplicita delle altre fattispecie che, allo stesso modo, possono attivare quell’inspiegabile odio che non ha altro motivo che stigmatizzare la diversità: genere, abilismo, orientamento sessuale, identità di genere.

Nel 2008 ci provò Paola Concia, altra deputata del Partito Democratico, che firmò, insieme a Barbara Pollastrini e Gianni Cuperlo, la proposta di legge “Misure contro gli atti persecutori e contro la discriminazione e la violenza determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere” . La proposta sembrava essere arrivata in porto, trainata dal clamore del fatto di cronaca dell’agosto 2009 relativo all’accoltellamento, nella gay street romana ai piedi del Colosseo, di un giovane da parte del celebre “Svastichella”, e dalle numerose fiaccolate che, in varie città, si susseguirono per gridare lo STOP all’omotransfobia. Ma, niente da fare! La fine fu ignominiosa. La proposta di legge venne affossata da una pregiudiziale di costituzionalità, avanzati da alcuni parlamentari dell’UDC con prima firma Michele Vietti.

Sembra strano oggi rileggere gli atti parlamentari relativi a quella bocciatura perché riportano considerazioni e paure che potrebbero risalire a un tempo ancestrale. Leggiamo, infatti, che

“l’inserimento tra le circostanze aggravanti comuni previste dall’articolo 61 del codice penale della circostanza di aver commesso il fatto per finalità inerenti all’orientamento sessuale ricomprende qualunque orientamento ivi compresi incesto, pedofilia, zoofilia, sadismo, necrofilia, masochismo eccetera”.

Incredibile vero? Le vite di tanti gay, tante lesbiche e trans accomunate a perversioni e disturbi psichiatrici, alcune dei quali terribili come la pedofilia. Eppure è storia recentissima del nostro Parlamento.

Nella XVII legislatura fu avanzato il Disegno di Legge, a prima firma di Ivan Scalfarotto, che, tuttavia, non riuscì a completare l’iter.
Arriviamo, quindi, al 2 maggio 2018, giorno in cui viene presentata la proposta di legge Zan (modifiche agli articoli 604-bis e 604-ter del codice penale, in materia di violenza o discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere).
L’intuizione della proposta di legge è di copiare la Legge Mancino e estenderla all’odio omotransfobico, alla misoginia e all’abilismo, le categorie dimenticate dalla Legge Mancino.

Ma qui casca l’asino, o meglio, qui cominciano le paure di varie bolle della società che inspiegabilmente, provenendo da mondi diversi e lontani, cominciano ad attrarsi e ad allearsi. Il tema su cui si appoggiano le paure è la cosiddetta “libertà di espressione”, e sembra non bastare che l’art. 4 del disegno di legge reciti, proprio per fugare questi dubbi: “Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime ri­conducibili al pluralismo delle idee o alla li­bertà delle scelte, purché non idonee a de­terminare il concreto pericolo del compi­mento di atti discriminatori o violenti.“.
Le bolle di cui scrivo poco sopra sono veramente appartenenti a culture distantissime, che solo fino a pochi anni fa sarebbero scese in piazza per azzuffarsi: si va dalle destre estreme, ai vari fondamentalismi cattolici (i cosiddetti “neocattolici” di cui scrive Massimo Prearo), al femminismo storico, e, udite udite, a rappresentanti più o meno in vista del movimento LGBT+ stesso.

E così, in un giorno qualunque di questa strana primavera 2021, alle mani colorate della campagna #diamociunamano, si affianca l’intensa campagna social di “Provita & Famiglia”, una delle associazioni capofila del movimento “nogender”, a cui riesce oltretutto il colpaccio di organizzare una conferenza riassuntiva del movimento “NO DDL ZAN”, con la partecipazione, tra gli altri, della pasionaria neocattolica Maria Rachele Ruiu, di Maria Cristina Gramolini, presidente di Arcilesbica Nazionale, e addirittura di Aurelio Mancuso che, oltre che membro del PD, è stato segretario dell’Arcigay.
Il paradosso inarrivabile si raggiunge nello scorrere tutti i protagonisti e le protagoniste della campagna social di Provita & Famiglia: un caleodoscopio coloratissimo che include perfino la Concia, oltre alla regista Cristina Comencini e a Marco Rizzo, presidente dei Comunisti Italiani. Tutte e tutti rappresentati nelle citazioni contro il ddl zan esternate in queste settimane.

A molti di noi è anche capitata la ventura di ricevere una mattina, appena svegli, l’invito a firmare l’appello “OMOTRANSFOBIA; AL SENATO E’ NECESSARIO CAMBIARE IL DDL ZAN”, firmato, come recita l’incipit, da “donne e uomini che fanno riferimento all’area politica del centro-sinistra, ispirati ai valori di estrazione democratica e progressista, (provenienti) da esperienze sociali e culturali differenti”. Queste donne e uomini, come prosegue l’incipit, “da sempre schierati in battaglie contro ogni discriminazione, per la difesa dei diritti e la libertà delle donne”, riescono nell’obiettivo di mettere insieme in un unico appello contro il ddl Zan argomenti, che sfido il lettore medio a rintracciare nelle maglie del ddl stesso, come: la libertà delle donne, la prostituzione, la maternità surrogata. Tra le firme dell’appello: di nuovo la Gramolini, di nuovo Mancuso, ma anche la Comencini e tante esponenti del movimento femminista. Un vero e proprio fuoco amico.

Ma cosa ha generato questo fuoco amico? La risposta si trova nell’Articolo 1 del ddl Zan, laddove si specifica, tra le definizioni in premessa, al punto b) che “per genere si intende qualunque ma­nifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso”.
Questa specifica getta benzina sul fuoco delle paure di alcune femministe storiche, incluse le femministe lesbiche, che vedono minacciata l’identità femminile, ad esempio, dai percorsi di transizione MTF (man to female) intrapresi da donne, nate in corpi maschili, e che tentano, alla luce di quanto già previsto dalla legge, di riconciliare, con sofferenza e determinazione, la propria identità (chissà perché invece delle donne che transitano verso il genere maschile non si parla mai).

Spaventa probabilmente anche il constatare quella fluidità espressa, oramai con naturalezza, dalle nuove generazioni, fluidità che non va nella direzione, come vorrebbe farci credere il popolo del “NODDLZAN”, dell’annientare le differenze di genere, ma che va nell’interpretare in modalità nuova e personale l’appartenenza al proprio genere, verso l’auspicabile avvento di un’era in cui ogni essere umano potrà, ad esempio, sentirsi libera o libero di esprimersi a prescindere da quanto la cultura vorrebbe assegnargli in funzione del genere di appartenenza. Un’era di ragazze che potranno sognare di diventare astronaute, pompieri, tecnici delle caldaie, oltre che casalinghe, maestre, parrucchiere, e di ragazzi che, come Fedez o Damiano dei Maneskin, non sentono minacciata la propria carica seduttiva o virilità dall’indossare lo smalto o un capo di abbigliamento rosa.

Ecco, io auspicherei che il dibattito sul ddl Zan avvenisse non sulla base delle paure, peraltro spesso non correlate con i contenuti stessi delle proposta di legge, ma del confronto sulla realtà dei fatti che, purtroppo, evidenziano la presenza dell’omotransfobia nel nostro paese. Il rapporto annuale di Arcigay parla chiaro: nel 2020 ancora 138 episodi (enumerando solo quelli narrati dalla cronaca) di odio omotransfobico in Italia.

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