Debutta sul palcoscenico del Teatro Cometa Off di Roma, dall’11 al 23 gennaio, Il Miracolo, spettacolo scritto da Franca De Angelis e diretto da Christian Angeli.

Anna Cianca e Galliano Mariani, con la partecipazione di Patrizia Bernardini, portano in scena uno spettacolo contemporaneo, provocatorio, in equilibrio tra dolore, speranza,  fede. Incontriamo la sua autrice, Franca De Angelis, versatile narratrice della realtà attuale in molteplici forme.

Il Miracolo appare una narrazione che non ha paura di sporcarsi le mani con temi forti come il dolore, la fede … c’è un nesso con gli anni appena attraversati?
Il Miracolo parla di morte e di elaborazione del dolore, del lutto, della paura. Parla anche di come a volte moriamo a causa della paura di morire. Dunque in un certo senso sì, credo che possa avere un nesso con questi due ultimi anni in cui morte, lutto e paura sono diventati termini quotidiani. L’idea di questo testo però è precedente e ha a che fare, semmai, con il mio recente vissuto personale. Sono entrata in quella fase della vita in cui perdere un amico, una persona cara non è un fatto straordinario e probabilmente avevo bisogno di rielaborare e sublimare lutti privati. Da un lato, scriverlo è stato per me un atto catartico. Per un altro verso però è un testo che nasce da un’istanza politica, che era quella di parlare della mancata approvazione della possibilità di adozione da parte delle coppie lgbt.

Quale è la personale nozione di miracolo per Franca De Angelis? Il vero miracolo, per me, è che l’uomo possegga l’innata capacità di sperare anche nei momenti più oscuri. A volerla vedere con oggettività, la condizione dell’essere umano è terribile. Non siamo nulla, viviamo per deperire e morire, non contiamo nel cosmo più di una formica ma a differenza di una formica siamo coscienti, abbiamo aspirazioni che vanno oltre la sopravvivenza giorno per giorno, dunque siamo destinati a soffrire in ogni momento in cui ci ricordiamo della nostra mortalità, della nostra pochezza. Dovremmo spararci un colpo alla tempia appena raggiungiamo l’età della consapevolezza. Invece creiamo religioni, opere d’arte, ci innamoriamo, tutte illusioni potentissime. Siamo illusionisti che si dimenticano di aver usato un trucco. E questo è miracoloso.

Tu hai saputo distinguerti in svariate forme di scrittura, accennaci come ti riscrivi nelle varie vesti.
In generale penso che un narratore possa essere tale indipendentemente dal mezzo, che faccia parte del mestiere il poter passare da un medium all’altro. Con questo non voglio dire che non ci siano tecniche peculiari per ogni campo di scrittura, ci sono eccome, ma sono per l’appunto tecniche, che per lo più si possono apprendere facilmente anche se magari ciascuno di noi ha un propensione per l’una o l’altra. Questa trasversalità la vedo sempre di più anche tra i soci del sindacato degli sceneggiatori, WGI, di cui faccio parte, anche perché i canali che richiedono scrittori e narratori si stanno moltiplicando, basti pensare ai podcast o al mondo dei giochi.

A livello personale, però, devo fare una netta distinzione tra l’attività di sceneggiatrice per il cinema e la tv e quella di drammaturga. Nella prima, che pure mi ha assorbito in modo esclusivo per moltissimi anni, ci ero capitata quasi per caso e mi ci sono accomodata con piacere, anche divertendomi molto; ma di rado ho avuto la sensazione di scrivere per una mia urgenza. Mi sentivo più al servizio di una storia che si costruiva collettivamente, tenendo conto di tante teste, di tante voci e di tante esigenze produttive ed editoriali e che alla fine, anche se magari l’idea partiva da me, mi rappresentava solo in parte. È il bello del cinema e della fiction, e allo stesso tempo per uno scrittore può rivelarsi il limite, almeno nel nostro paese. Al contrario, per il teatro scrivo solo se e perché desidero fortemente dire qualcosa e dirla in quel modo. È il motivo per cui sono tornata a occuparmi di teatro, avevo iniziato con il teatro seppure da attrice; arrivata a una certa età mi sono detta: se non ora, quando?

È vero che una piccola produzione teatrale rende a volte più liberi di una serie tv? So che saprai risponderci sinceramente.
Credo sia naturale che la libertà di chi scrive o più in generale di creare sia inversamente proporzionale all’investimento economico che l’opera richiede da parte dei finanziatori. Detto ciò, nel nostro paese abbiamo un grande problema, per quanto riguarda l’autonomia e la fiducia data agli scrittori in campo cinematografico e soprattutto televisivo. Mentre nel resto del mondo, di certo in quello americano/anglosassone, al creatore di una serie televisiva viene richiesto di assumersene quasi totalmente la responsabilità e il controllo, in Italia questi sono contesi tra produttore, editore e forse, ma sempre meno, regista. In ogni caso, tutti loro insieme, tranne pochissime eccezioni, non vedono l’ora di togliersi di torno gli sceneggiatori, ovvero gli unici che hanno davvero chiaro il mondo che si deve rappresentare. E questo è assurdo, anche da un punto vista di resa dell’opera. Inoltre i nostri produttori hanno pochissima voglia di rischiare in idee e linguaggi nuovi, nonostante non facciano che ripetere di essere a caccia di novità. Dunque finiscono per essere costantemente all’inseguimento degli altri paesi e del pubblico, sono sempre un passo indietro e costringono spesso gli autori a fare altrettanto.

In teatro lavori spesso con collaboratori fidati, raccontaci quali sono le basi del vostro fare insieme.
Nel caso de Il Miracolo, più ancora che collaboratori fidati sono persone care e amici di vecchissima data; il regista, Christian Angeli, è anche mio marito, Anna Cianca è la voce che io sento nella testa quando scrivo, Galliano Mariani è stato già protagonista di un mio monologo, con Patrizia Bernardini lavoro per la prima volta ma la conosco da anni e l’ho ammirata in altri spettacoli. Da pochissimo abbiamo messo su una nostra compagnia, ci stimiamo da moltissimi anni e questo fa sì che la gran parte delle volte ci si capisca al volo, senza bisogno di grandi spiegazioni. Personalmente io credo molto nella famiglia, intesa in senso metaforico, ho desiderio di lavorare esclusivamente con persone che mi piacciono sotto tutti i punti di vista

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