Edito, con ironica sorte, da L’Orma editore, Il posto, è il titolo del romanzo della scrittrice Annie Ernaux che si è aggiudicata il suo posto come Premio Nobel per la Lltteratura quest’anno.

E’ un posto un po’ ampio: è il posto di professoressa di ruolo di lei, Annie Ernaux, o quello a tavola di lui, il padre? Quello di una studentessa che ha perso la speranza e si ritrova a fare la commessa, o dei soliti clienti del bar, accomunati dallo stesso punto d’intersezione?

Oppure è il posto fisico come luogo d’origine di una Francia del ‘900, popolare e rustica, sullo sfondo di una foto con la cornice di latrine e lavanderie, che senz’altro non è l’ambientazione più dignitosa per uno scatto ma, di certo, umilmente non ricerca un’estetica falsa. Dopotutto è quello il loro posto.

L’ autrice apre così un vaso di Pandora e non è ipocrita nel farlo. Fa scivolare la crudezza tenera sulle pagine di questo libro. Non vuole mascherare l’evidenza delle nostre storie tempestate della loro condanna umana, quella di una collocazione, che l’essere umano effettivamente non può mai trovare, in quanto essere dinamico nel tempo, nello spazio, nel suo stato personale.

La vita del padre, del nonno, delle figure femminili che vivono una lenta emancipazione sono, in realtà, state seminate in questa terra, e attendono impazienti un giudizio universale che possa sancire le condizioni che gli sono capitate, ma fanno il loro percorso, dignitosamente, contemporanee ai limiti dell’epoca, del luogo e del tempo, astenendosi dall’idea che possa essere una loro volontà a cambiarlo.

Il libro affronta il rigore di passare attraverso il mito delle cinque età in modo inverso, che rappresenti a pennello la metafora per cui la differenza della materialità rispecchi una qualità a livello del progresso della stirpe; il nonno, il rozzo metallo, il ferro, per poi purgarsi in bronzo con il padre ed arrivare all’oro raffinato di Annie.

Ma Il posto, in un’interpretazione più libera, si potrebbe intendere come luogo atemporale che si colloca laddove si cerca un equilibrio, un filo che faccia da ponte tra rapporti, da intermediario tra l’intricato dinamismo di crearsi la propria storia individuale ma collettiva e quello di dover pur accettare da dove si viene e quindi quello che si è, ben differente da ciò che si costruisce al di là di questo.

Trapela nel padre una rinuncia, ma in realtà Annie Ernaux non lo dipinge come uomo arreso alle sue condizioni, bensì fedele ad una cornice storica e culturale come protagonista di un quadro.

Diventa lui il bambino da istruire, da correggere negli errori grammaticali, a cui, nonostante la sua infantilità, la figlia insegna a fare il genitore, ruolo che si impara sempre troppo in ritardo. Tutto questo quindi è l’emblema dell’inversione di ruoli, che dovrebbero, invece, stare al loro posto e ciò ne conferma proprio l’inafferrabilità.

La figlia scorge però quell’unico elemento del vaso del mito che non è uscito: la speranza. Ed è qui che inizia la storia dell’autrice, che ha guardato meglio, solo grazie alla guida delle sue origini, ad un lutto che ha confermato un’assenza mentale, fisica e affettiva che non ha da dire nulla se non esemplificare un simbolo di quell’incomprensibilità, percepita sia dagli occhi di un padre, sia di campagnolo, sia di un linguaggio, sia di un costume.

Ha scoperto la speranza e ne ha guadagnato. L’ha portata ad essere una donna timida della propria indipendenza di fronte ai genitori, estranei ad un mondo discordante in parallelo al loro, e la frustrazione di non poterglielo mostrare.

Il padre: il ruolo è determinato in quanto, purtroppo o per fortuna, biologicamente non ha freni per nessun uomo, ma complicata e goffa è la sua gestione di un compito ben più arduo, che può venire a mancare, può incepparsi, retrocedere o avanzare, può rendere forzata quella che dovrebbe essere una spontaneità.

Infatti dall’analisi del romanzo si può riscontrare come la parola posto sia sempre riferita alla figura paterna, che ricopriva un posto stabile perché «invitava l’interlocutore a capire e a continuare al suo posto». Alle volte usava «prendere il posto di mia madre in drogheria». Quello «seduto a tavola al suo posto», quello di rappresentare un’autorità nel nucleo familiare e in un piccolo “sistema”.

Tutti ruoli che prescindono da una partecipazione personale che non si spinge oltre al «fare come si usa» e rispettare i costumi di un’epoca e una realtà per non sentirsi fuori posto non appena si allontana da uno fisso e comodo e si ritrova davanti ad un interlocutore che pretende un’opinione. Il suo posto si è fissato laddove il suo ruolo sociale ha cessato la sua evoluzione, come se essere contadini si riferisse ad un primo stadio umano, il cui unico progresso è stato quello di passare da contadino a gestore di un bar-drogheria.

Questa evoluzione viene continuata dalla figlia, ma con una legittima frustrazione, compensata dall’orgoglio in un costante conflitto che si spegne sempre nella stessa vergogna e omertà rispetto ad una persona di rango superiore.

La complicità di padre e figlia non c’è più. C’è uno spiraglio di invidia. Si nota tra le righe l’instabilità morale del padre: «si irrigidiva, timido, preferendo non fare domande», comportamento che lo costringe ad appellarsi e appendersi faticosamente ad un suo personale punto di vista, che possa dar voce non più alla categoria in cui rientra, quella di un padre e per di più contadino.

Non si coglie attraverso la scrittura di Annie Ernaux se questo sia un bene o un male, né questo è l’obiettivo, ma di certo questo padre sceglie l’omertà. È un mondo che non lo riguarda, preferisce rimanere nascosto e non fuoriuscire dalla sua di etichetta per paura di trovarsi esposto a troppe e legittime critiche.

Tutti lo portano a nascondersi dietro un’impacciata educazione e una gentilezza che possa nascondere l’insorgere dell’ignoranza e l’umile provenienza. Dall’altra parte ribolle però il rifiuto di doversi piegare ad una più forte arma, di sottomettersi a quella proprietà di linguaggio e sentire la libertà di padroneggiare le parole, di dar voce ad una scelta per un uomo imprigionato ad un esercizio puramente manuale.

Arriva la morte del padre. È proprio quel lutto che ha voluto far risorgere in queste pagine, un uomo, una famiglia.

Questo è la piacevole fatica che l’autrice ci illustra limitandosi a smistare il flusso di ricordi sfuggenti che rincorrono un padre enigmatico con l’uso della stessa scrittura con la quale informava i genitori delle «notizie essenziali», quelle concrete, senza sfociare nella volontà di esporre al lettore un patetismo o una complicità, bensì fotografare la memoria con l’obiettivo non di una bambina né di una donna, ma in primis di una figlia, che attraverso la letteratura ha colto la necessità di mettere per iscritto un rapporto senza filtri, in cui ogni parola è fotocopia di un gesto e di quel compito supplementare: la comunicazione con un figlio e sicuramente quella di Annie Ernaux e suo padre non è proprio verbale.

La traduzione, intesa in senso letterale, da una generazione ad un’altra prevede di per sé miriadi di incomprensioni, ma per Annie Ernaux, che si mette nei decorosi panni di un’interprete, perché è solo lei che ha gli strumenti per farlo, c’è una scomodità in più, ovvero remare verso quel mondo che sottometteva intellettualmente suo padre e che lei aveva scelto.

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