‘Il Re’: la serie crime con Luca Zingaretti che insinua il dubbio etico
Il personaggio ombroso e ambiguo interpretato da Luca Zingaretti ci spinge a porci molte domande sul senso della giustizia e della liceità.
Il personaggio ombroso e ambiguo interpretato da Luca Zingaretti ci spinge a porci molte domande sul senso della giustizia e della liceità.
Il successo di Luca Zingaretti in qualunque personaggio dipende in parte da quanto lo spettatore riesca a dissociarlo dal commissario Montalbano, che l’attore romano ha interpretato per 23 anni.
Con Il Re (Sky Atlantic e su Now Tv in streaming) la dissociazione è difficile anche per una come me che segue Luca Zingaretti da quando era un ragazzino nelle piccole produzioni dei teatri off di Roma.
Intendiamoci: Luca Zingaretti era bravissimo allora e come Montalbano è meraviglioso ed è fantastico anche come Bruno Testori, direttore del San Michele, carcere di frontiera molto complicato; solo che in pantaloni e maglione girocollo, a capo di un gruppo in divisa (di guardie carcerarie), seduto dietro a una scrivania, indaffarato con procuratori e servizi segreti e delinquenti di varia risma, richiama a ogni passo il poliziotto siciliano di Camilleri, anche se si capisce fin dalla prima puntata che questo Bruno è molto più cupo.
Con Montalbano divide però il carattere ombroso, e insomma ci ho messo sei puntate a convincermi davvero che Bruno Testori non appartiene alla schiera dei buoni contro i cattivi; che potrebbe anzi essere iscritto fra i cattivi, salvo che la divisione fra buoni e cattivi in Il Re è molto labile – e che lui stesso, con la ex moglie, con la figlioletta, è un uomo umanissimo come tanti altri.
Direi che tutto dipenda dal tema fondamentale della serie ideata da Stefano Bises (già Gomorra fra le altre cose) e diretta da Giuseppe Gagliardi. Chi è buono, cos’è giustizia, cosa significa aderire alla legge, nei fatti e nelle idee; ma anche, se sia lecito decidere cosa sia giustizia al di fuori della legge (chi custodirà i custodi? Ma anche, chi scrive le leggi, e a quale scopo?).
Temi su cui si può dibattere all’infinito, ovvio, e gli sceneggiatori non ci offrono una risposta univoca; i prison drama, come le serie crime, sono ideali per insinuare dubbi etici.
Quindi: è lecito gestire un traffico di droga controllato in carcere per far star tranquilli i detenuti, anche se le guardie carcerarie ci ricavano un po’ di soldi? Bruno Testori è più cane da guardia dei delinquenti, o cane da pastore di una umanità variamente disperata?
La trama parte da due omicidi, ma non la racconto nei dettagli e non è la cosa più interessante. Il racconto si snoda fra il braccio dei napoletani, essenzialmente dentro per spaccio, e quello degli islamici, in galera perché ritenuti a vario titolo radicalizzati; ne emerge che l’Islam è pace, salvo che per poche mele marce votate al terrorismo.
Intorno a Testori intanto girano diverse donne che formano l’esterno rispetto all’interno, la prigione dove spesso il direttore si ferma persino a dormire.
Ci sono: la procuratrice che sospetta di lui e vuole incastrarlo ad ogni costo (Anna Boniauto); la moglie separata che lavora per i servizi segreti e che lo ama ancora (Barbara Bobulova); la figlia Adele, maturata troppo in fretta per colpa di una malattia (Alida Baldari Calabria); e infine l’unica donna fra le guardie carcerarie, Sonia Massini (Isabella Ragonese), anello di congiunzione fra la prigione e la vita esterna perché conosciamo anche la sua casa minuscola e il figlio adolescente che tira su da sola.
Proprio Ragonese (bravissima, ma lo sono tutte e tutti) ci porta a chiederci quanto ci sia di mascolinità tossica nel ritratto di Testori e di tanti maschi che girano nella serie; Sonia Massini ha scelto un mestiere da uomo, vorrebbe esercitarlo con onestà, è la più tormentata, dai dubbi ma anche dalle debolezze e dallo squallore, dalla sua condizione di unica donna al San Michele, dal sospetto che Testori le preferisca di gran lunga i colleghi maschi, dalla necessità di farsi valere ed essere fedele a se stessa: solo che, saperlo, chi è davvero.
Il vero protagonista dunque alla fine è il carcere, non un microcosmo ma un inferno su terra. La serie è girata a Trieste (benché la città quasi non sia citata), gli interni della prigione nell’ex carcere di Civitavecchia e in quello di Torino Le Nuove, anch’esso in disuso.
Luoghi fatiscenti, mura scrostate, celle vetuste e sovraffollate di letti a castello, cessi a vista, scale, cortili devastati, topi che scappano nei pertugi. Piacerebbe pensare che le carceri in uso in Italia invece fossero diverse, tutte nuove e attrezzate, solo che ahimé, lo sappiamo, molte somigliano proprio al San Michele.
L’umanità all’interno si adatta come può: sigarette su sigarette, caffè su caffè, sudore, crisi di astinenza, certamente l’odore fitto che non senti attraverso lo schermo ma che si incrosta lo stesso sugli occhi.
E’ questo che resta de Il Re, più della storia: la galera e gli uomini (e le donne) che cercano un impossibile equilibrio fra dentro e fuori.
In marzo Luca Zingaretti ha annunciato che non sarà più Montalbano. A dire il vero lo aveva detto anche in passato, ma ora non ci sono più né Andrea Camilleri né il regista storico della serie Alberto Sironi. Fa bene, è ora; del resto l’ottavo ed ultimo episodio del Re lascia aperte ampie possibilità, si apre un’altra franchise.