Di recente, la scrittrice ebrea di origini ungheresi, Edith Bruck, che da qualche decennio vive a Roma e, dal 1954, risiede in Italia, ha avuto modo di affermare che ormai viviamo in un mondo di profughi. Tutti noi siamo profughi o destinati a esserlo.

A dodici anni lei e la sua poverissima famiglia vennero deportati ad Auschwitz dove Edith perse entrambi i genitori. Più tardi venne trasferita a Dachau e, infine, a Bergen Belsen.

Una volta liberata, ebbe molte difficoltà a ritrovare una sua collocazione nel mondo del dopoguerra, perché le persone la scansavano anche per un senso di colpa con cui non riuscivano a fare i conti.

Il pensiero di questa profezia della Bruck può emergere anche dalla lettura delle pagine semplici e intense della scrittrice monzese Alessandra Carati nel suo libro di esordio E poi saremo salvi (Mondadori, pp 276, euro 18.00).

Dopo sei anni di duro lavoro di documentazione, scrittura e riscrittura, Alessandra Carati ci restituisce le vicende di una famiglia che all’inizio degli anni Novanta – novanta dico, ricorderete!? Oppure no? – è costretta a fuggire dal suo piccolo paese in Bosnia per cercare in Italia la salvezza da una guerra orribile, fratricida, insensatamente violenta.

La vicenda è vista con gli occhi della piccola Aida che, a soli sei anni, affidandosi a sua madre è costretta ad affrontare un deserto di paura e di angoscia per raggiungere il confine dove li aspetta il padre.

Il titolo del libro è allora la risposta chiave a tutta la vicenda, alla vicenda di ogni profugo a ogni latitudine. E’ la risposta alla domanda: e poi, quando saremo arrivati al confine? E poi saremo salvi.

Non si tratta di facile ottimismo o di espedienti per tenere alto il morale di una bambina, quanto di una forte speranza che esista un altrove dove ancora può essere possibile vivere.

Nel suo libro, Alessandra Carati mostra di avere una cura per i suoi personaggi che altrove non è facile trovare. E’ capace di un ancoraggio alla Storia con la esse maiuscola che, invece di far ombra sulle vicende personali, le illumina di una luce naturale che ce li rende vicini. Compagni di scuola dei nostri figli. Vicini di casa. Utenti dei mezzi pubblici delle nostre città.

Come sempre, il mondo dei media, circa trenta anni fa (ma lo fa anche adesso) ha profuso retorica a buon mercato sulle vicende di queste persone. L’obiettivo era raggiungere l’emozione di un attimo e l’oblio per sempre. La Carati si salva da questa perversione e salva noi lettori.

In più, senza pedagogismi inutili, ci porta a interrogarci su come stiamo vivendo questi fatti. Tutti: la guerra nella ex yugoslavia, il Libano, La Siria, La guerra in Afghanistan, l’Iran, la questione palestinese, le vicende del popolo curdo e la recente aggressione russa all’Ucrania. Ma non servono categorie geopolitiche, perché le vite delle persone parlano da sole.

Lentamente nel romanzo di Alessandra Carati si afferma una nuova linea narrativa, quella del romanzo di formazione della piccola Aida che cresce, è costretta a crescere, da esule, in un paese che l’ha accolta e salvata ma che rimane straniero se non addirittura ostile.

L’antico villaggio in Bosnia non c’è più. Si può tornare a visitare e a vedere quello che un tempo erano le radici della famiglia. Ma questa nuova condizione è altrettanto estraniante.

Intorno alla storia di Aida prosegue la marcia dei suoi familiari, a volte spaesati, a volte arrabbiati, altre volte depressi oppure molto determinati in modo frenetico per raggiungere la salvezza rievocata dal titolo. Non basterà infatti aver superato un confine, ma, per ciascuno si tratterà di trovare una propria strada.

Riuscire a farsi aiutare sarà uno dei passaggi cruciali della storia di Aida. A lei si avvicinerà una volontaria che riuscirà ad aiutarla a vivere e orientarsi.

Affiorerà allora per tutti una delle questioni più ambivalenti e contradditorie del nostro tempo: l’identità. Tutti si rifugiano dentro questa parola che spesso è un guscio vuoto oppure, peggio, un’occasione per schierarsi contro qualcun altro. Per Aida, però, nelle sue riflessioni è un modo per fare i conti in modo serio con il proprio presente e il proprio passato.

Vale la pensa concludere questa riflessione soffermandosi sulla scrittura di Alessandra Carati. Si tratta di una lingua delicatissima ma capace di penetrare fin nel profondo le vicende umane che racconta. E’ una lingua che rifiuta di farsi bella per evitare di interporsi tra il lettore e l’oggetto narrato.

E’ una lingua molto curata e profondamente onesta, come il libro che ci consegna e che meritatamente concorre alla fase finale del Premio Strega.

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